Categoria: <span>psico oncologia</span>

intervista

Intervista della laureanda Jessica Ruscitti alla dott.ssa Floriana De Michele

Domanda 1) Da quanto si occupa di supportare i malati di cancro terminale e in quali strutture lavora?

Risposta 1) Ho iniziato ad occuparmi della psicologia dei malati di cancro dall’inizio della mia carriera di psicologa . Non ero ancora una psicoterapeuta anche se già iscritta ad una scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica ed iniziai un volontariato presso l’Ospedale San Camillo di Roma che portai avanti per ben sette anni. Erano gli anni 80 e gli psicologi erano veramente degli sconosciuti in Italia e non si sapeva bene cosa e come dovessero fare! La scuola di psicoterapia mi insegnò molto e mi supportó per tutto il tempo che io rimasi lí . Ho ricominciato ad occuparmi di psiconcologia con i malati terminali presso l’hospice di Pescina dal 2014 . Due realtà difficili in cui il nostro compito è lavorare con l’immagine della morte: nel primo motivando alla speranza è alla forza di vivere, nel secondo accompagnando le persone alla morte attraverso l’elaborazione del trauma e l’appropriazione dell’esperienza traumatica .

Domanda 2) Nell’effettivo, concretamente, in cosa consiste il suo lavoro?

Risposta 2) L’ambiente dell’hospice è caratterizzato da un’atmosfera di insicurezza totale non solo per i malati. Entrando in questo luogo lo psicologo è immediatamente investito degli stati d’animo di tutte le persone che l’animano. Paure, insicurezze, rabbie, rifiuto, negazione e attaccamenti affettivi ferrei, indissolubili, irremovibili. Tutti questi sentimenti agiscono nei malati, nei parenti e negli operatori che inconsapevolmente li vivono tramite relazioni fragili e molto spesso conflittuali. Lo psicologo deve riuscire ad inserirsi in queste dinamiche e non è per nulla scontato che ci riesca ! Egli può essere vissuto da tutti come un corpo estraneo se non ha il tempo materiale da condividere con tutti loro. Io lavoro 8 ore settimanali presso l’hospice di Pescina e a volte non danno modo di conoscere e inserirsi nel breve ciclo di vita a termine dei malati e delle loro famiglie. Ed ogni storia crea dinamiche lavorative e personali particolari in ognuno degli operatori che non potranno narrare a nessuno ma solo viversi singolarmente convinti che possono farcela da soli.

Domanda 3) Quali sono le differenze lavorative con un malato di cancro con maggiori aspettative di vita e con uno in fase terminale?

Risposta 3) Come già ho accennato prima lavorare con un malato di cancro significa aiutarlo a raccontarsi e conoscersi interiormente al fine di permettere la fiscalizzazione dei suoi conflitti principali e il loro superamento tramite un
Processo di crescita della fiducia in sè stessi e negli altri . Ciò porterá a dare senso alla speranza ma anche a confrontarsi con il limite che ognuno di noi deve accettare nella vita! A capitalizzare il
Futuro negli affetti, nelle relazioni positive ed in
Ogni azione che potrà dare soddisfazione nella vita ! Con i malati terminali succede il contrario. Loro per la maggior parte dei casi vivono nel dolore e nella paura della morte . Spesso la immaginano e la sentono come un dolore insormontabile ed ecco perché l’hospice diventa un luogo di supporto fondamentale! Le cure mediche vengono meglio accettate se il dolore viene conosciuto ed elaborato come è esperienza personale e relazionale vissuto nelle dinamiche familiari tramite il supporto terapeutico psicologico . È così che si supera il limite e si
Muore con la mano del caro che ti aiuta ad andare via , avendo la consapevolezza che non sarà mai totalmente così.

Domanda 4) Gli aspetti positivi e negativi del suo lavoro. Cosa si potrebbe migliorare?

Risposta 4) Essendo il lavoro dello psicologo e psicoterapeuta un lavoro basato sulle buone relazioni umane ciò che c’è di positivo in questo lavoro è proprio questo : la possibilità di metterei in gioco in relazioni altamente significative dal punto di vista umano. La morte è la cosa più importante e significativa della vita oltre la quale c’è solo la speranza di un altra vita! Di negativo c’è che l’importanza del lavoro psicologico non viene riconosciuto a livello istituzionale ed organizzativo per cui pur essendo presente nel l’hospice di fatto non viene dato il tempo di operare. Con 8 ore in si ha il tempo di conoscere i malati figuriamoci i loro parenti! Nemmeno si può aiutare più di tanto il personale che spesso non c’è il tempo nemmeno per dirsi buongiorno !

Domanda 5) Come vive lei questo lavoro? Come impatta su di lei?

Risposta 5) Questo lavoro naturalmente mi ha influenzato molto a livello personale come succede agli altri operatori. In me c’è anche una insoddisfazione di base per non poter fare di più e il non sentirmi veramente utile a livello personale come succede agli altri. Purtroppo riesco a seguire la minoranza delle persone ricoverate a causa del tempo che non ho a disposizione. Mi sento veramente soddisfatta e apprezzata quando il mio intervento non è programmato ma avviene in emergenza sia con i malati che con i parenti . Una grande soddisfazione mi viene con il lavoro svolto quotidianamente con gli operatori con i quali c’è una collaborazione continua.

Può rispondere anche tramite email quando ha un po’ di tempo libero. La ringrazio tanto.

Jessica Ruscitti

Morte e Vita

Lo sviluppo e l’affermarsi della tecnica e della tecnologia hanno garantito nell’essere umano un senso illusorio di onnipotenza. Il modo in cui l’uomo moderno concepisce la morte (e la vita) è frutto di questa tendenza che ha portato ad allontanarla e a contemplarla solo nel momento in cui essa sopraggiunge.

L’individuo è spinto dalla società stessa a inseguire il mito dell’eterna giovinezza e dell’immortalità. Alla fine della corsa, l’immortalità diviene un’idea proiettata e trasferita nel concetto di religione, sul senso dell’infinità dell’anima e della vita eterna (morte e vita).

In alcune culture, infatti, si crede nella reincarnazione, nel rinascere sotto altre forme o personalità, oppure nella vita ultraterrena con la resurrezione dell’anima.

In altre ancora, la morte viene considerata come una festa, un rituale di iniziazione a nuova vita. La religione ridona all’uomo quel perduto senso di onnipotenza, garantendo continuità alla sua storia personale, biologica ed esistenziale.

Freud scrive: “ognuno di noi è inconsciamente convinto della propria immortalità”, sostenendo che le religioni sono illusioni, credenze ideate dalla specie umana per sopportare la propria impotenza di vita, un’impotenza che nell’iper-modernità viene elaborata e superata separando la morte dalla vita stessa.

La morte nella tradizione

Tradizionalmente la morte e lo stesso morente sono integrati come parte attiva nella vita di tutti i giorni; la persona morta è vista nella sua continuità di vita e la morte è considerata un “approssimarsi” attraverso rituali e credenze.

“Tra tutti gli esseri viventi l’uomo rappresenta la sola specie animale in cui la morte è onnipresente durante tutta la sua vita; la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso ancora crede, alla sopravvivenza, alla rinascita dei defunti: in breve, la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura” (Thomas, ed. it. 1976, p.10 n.11).

Considerare la morte, come atto dell’esistenza, è una condizione naturale che interessa l’intero arco dell’esistere, ed è insita nella cultura. In altre parole, tra morte, morire e vita esiste un legame inscindibile, interpretato a seconda del contesto culturale di appartenenza, e le parole dell’antropologo L.V. Thomas fanno percepire quanto la morte sia, da sempre, oggetto di riflessione dell’uomo e sia radicata nella profondità della sua condizione.

La Morte in Psicoanalisi

In psicoanalisi esistono due principali quadri teorici riguardo la pulsione di morte. Il primo, inaugurato da Freud, la considera una pulsione arcaica, innata e primordiale, che modera e contiene quella di vita, dando origine all’esistenza stessa. Il secondo ritiene che l’aggressività nasca dalle prime esperienze traumatiche, deprivanti e carenziali, che l’individuo incontra nel corso del suo sviluppo.

Anche in questo caso, la tendenza all’autodistruzione non è slegata dalla tendenza a vivere, in quanto rappresenta una sorta di meccanismo difensivo che l’individuo mette in atto per proteggere il proprio “se vitale” da un ambiente violento.

Se è vero che la psicologia riconosce l’importanza della dialettica vita-morte è anche vero che lo smodato potere che il progresso scientifico ha dato all’uomo lo ha portato ad eludere il concetto di morte da quello di vita. Questa scissione ha generato un’incapacità di riflettere sull’atto stesso del morire, che secondo Blandino (1993) potrebbe esser vista come una conseguenza di un atteggiamento disattento e superficiale rispetto alla vita e al mondo, tipico dell’uomo del terzo millennio.

Meccanismi difensivi psicologici

Sono molte le difese psicologiche messe in atto per soffocare l’urlo sordo dell’angoscia, e con esso il pensiero della possibilità della morte (Becker, 1982; Bauman, 1992).

Il meccanismo difensivo che più facilmente viene utilizzato è la negazione, rappresentante anche una delle 5 fasi del lutto, riportate nel “Modello del dolore” (Kubler-Ross,1969).

Per la psichiatra Kubler-Ross il diniego è lo stadio che può inizialmente aiutare il morente, e con esso le persone vicine, a sopravvivere alla perdita. Ciò rafforzerebbe l’ideologia edonista tipica della cultura occidentale.

Nel corso dei secoli, il progresso della medicina ha ingigantito il peso del morire, osservato più come un fallimento della cura, dunque una sconfitta, che come un necessario ed imprescindibile processo del divenire umano. Sotto questo influsso, l’ambiente sanitario, tende a medicalizzare la morte ed a nasconderla allo stesso morente.

La “buona morte” di oggi è quella che non disturba, che non mette in imbarazzo il personale: se un paziente rende manifeste le sue paure e le sue ansie all’approssimarsi della sua fine crea difficoltà indesiderate (Perilli, 2012).

Va da sé che risulta difficile poter considerare la morte come “un sacro trapasso, un passaggio verso un’altra forma di esistenza, essa è solo un buco nero che si apre davanti ai nostri piedi quando meno ce lo aspettiamo: l’unica scappatoia consiste nella sua negazione e nella sua rimozione” (Carotenuto, 1997).

Un nuovo senso di Morte

Bisognerebbe, in tal senso, ripartire dal concetto di morte per poterlo reintegrare nella coscienza individuale e collettiva, in una prospettiva che dà importanza alla cura e all’accudimento. Spesso questo sostegno spetta ai familiari, il cui bisogno di dare affetto ai propri cari è così forte da sconfinare nell’eccesso: “…mio marito pensa che solo lui possa accudirmi nel miglior modo possibile, credo che non capisca fino in fondo la mia sofferenza”; “…mio figlio non capisce da dove deriva la mia volontà di mangiare un panino, io vorrei solo riassaporare la vita prima di andarmene”.

Il ruolo dello psicologo

Il ruolo dello psicologo, in quest’ottica, dovrebbe creare uno spazio che sappia accogliere e contenere i bisogni del morente per favorire il compiersi di una trasformazione, personale e collettiva al tempo stesso, del divenire umano. Dunque, comprendere l’importanza dell’accoglimento della sofferenza è cruciale, il paziente deve essere consapevole di quello che accade dentro ed intorno a sé. Nel libro “On Death and Dying”, la Kubler-Ross (1969) invita ad aprire un dialogo con i malati terminali, descrivendo l’enorme sollievo recato alle persone morenti quando li si invita a far partecipi gli altri delle proprie paure e dei propri bisogni e sostenendo quanto il colloquio faciliti il viaggio verso la morte.

Tra i diversi approcci e strumenti a disposizione dei professionisti sul campo, il contatto potrebbe essere uno dei mezzi più efficaci per un ritorno all’apprezzamento delle cose primarie e necessarie della vita; mangiare un panino, annusare una pianta fiorita e toccare con mano la terra fresca diventano esperienze uniche ed irripetibili, con un carico di significato davvero importante. In questo senso, l’accettazione comporterebbe il ritorno ad essere un tutt’uno con il mondo, con la natura e con l’origine delle cose.

Scrive Muir: “lasciate che i bambini vadano nella natura, lasciate che vedano le meravigliose combinazioni e comunioni di morte e vita, la loro gioiosa, inseparabile unità come insegnata da boschi e prati, pianure, montagne e torrenti della nostra stella benedetta; impareranno che la morte è davvero sprovvista di aculeo, che essa è bella come la vita, è che nel sepolcro non vi è vittoria, poiché non vi è lotta. Tutto è in armonia divina”.

Il senso di morte nei malati terminali

Spesso è proprio questo il bisogno in pazienti terminali, quello di legare la vita alla morte; una comunione che si ritrova nelle loro ultime parole, espressioni del duplice aspetto della natura, nella sua manifestazione regressiva e infantile di Madre buona, che dona la vita, e di Madre cattiva, che la toglie: “…l’acqua in abbondanza che regala frutti, l’acqua che manca e tutto secca”; “…un pianeta esausto da abbandonare e un pianeta nuovo per rinascere”; “…un pugno di terra fresco per poter sentire l’odore della vita mentre sopraggiunge la morte”, sono elementi che spesso ritornano nei colloqui con il paziente al termine della vita.

All’interno del sistema delle cure palliative si concretizza il passaggio da una cultura sanitaria focalizzata sull’ “healing”, appunto cura, a una cultura focalizzata sul “caring”, cura della persona. In italiano spesso si utilizza indifferentemente il termine curare per esprimere concetti eterogenei; in inglese, invece, si distingue nettamente tra lo scopo del guarire una malattia e quello del prendersi cura di un individuo (De Beni, Borella, 2015).

Ecco che la cura diventa un vero e proprio valore, una tendenza all’ “inter-essere” (Thich Nhat Hanh), una necessità dell’essere umano di riconnettersi con la Terra, come i pazienti ci manifestano nell’intenso rapporto con loro: “…essere toccati per sentire ancora il proprio corpo”, “riconoscere l’odore della propria pelle”, “…tendere la mano per mantenere un legame”, “…sostituire una carezza ad un pensiero”.

La filosofa americana Joan Tronto, ha definito la cura come: “una pratica, volta a mantenere, continuare o riparare il mondo”.

La cura è un aspetto universale della vita: tutti gli esseri umani hanno bisogni che possono essere soddisfatti solo mediante l’aiuto degli altri. Chi presta una cura dovrebbe essere consapevole del valore di questa pratica: “…La cura non è semplicemente una preoccupazione mentale o un tratto del carattere, ma la preoccupazione di esseri viventi e attivi impegnati nei processi di vita quotidiana. La cura è sia una pratica che una disposizione” (J. Tronto, 2006).

Bibliografia

1. Bovero A., Torta R., Aspetti profondi della morte: riflessioni sull’esperienza del morire e sugli approcci d’intervento. Anno 4 – n. 1 – Aprile 2010,[32-47] 12-04-2010 9:55.

2. De Beni R., Borelli E., Psicologia dell’invecchiamento e della longevità, II edizione, Il Mulino, 2015.

3. Kranner, I., Minibayeva, F. V., Beckett, R. P., & Seal, C. E. What is stress? Concepts, definitions and applications in seed science, 2010. New Phytologist, 188(3), 655-673.

4. Perilli E., Ombre Iper-moderne, Magi Formazione, 2012.

5. Muir J., Andare in montagna è tornare a casa, 2020.

6. Ripamonti C.A., Manuale di psicologia della salute: prospettive cliniche, dinamiche e relazionali. Il Mulino, 2015.

7. Segerstrom, S. C., & Miller, G. E. Psychological stress and the human immune system: a meta-analytic study of 30 years of inquiry, 2004. Psychological bulletin, 130(4), 601.

8. Thomas L.V., Anthropologie de la mort. Garzanti, 1976.

9. Van der Kolk, B. A., Il disturbo traumatico dello sviluppo: verso una diagnosi razionale per bambini cronicamente traumatizzati. In: Caretti, V., Craparo, G. Trauma e psicopatologia. Un approccio evolutivo-relazionale., 2008.

10. Viorst J., Distacchi, Pickwick, 2014.

Se hai trovato interessante questo articolo, puoi leggere anche: La cura dello psicologo, dello psichiatra e degli operatori di salute mentale. Farmacologia e Psicoterapia a confronto.

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pazienti oncologici

Pazienti oncologici : nuovo target , nuovi bisogni

Dati forniti dalla Fondazione AIOM e AIOM sulla qualità della vita dei pazienti oncologici

La Fondazione AIOM e AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) nel 2018 pubblica dei dati molto interessanti sui pazienti oncologici a seguito di un lavoro attento di ricerca sulla qualità della vita dei malati di cancro. L’intento è di “creare collaborazioni strutturate fra centri oncologici, medici di famiglia e farmacisti: lo chiedono con forza i malati”( Fabrizio Nicolis, presidente Fondazione AIOM, di insalutenews.it 28 febbraio 2018).

Il ruolo del medico di base

Questi dati ci dicono che il 57% dei pazienti colpiti da cancro riferisce al medico i piccoli disturbi legati alla malattia o alle terapie e che la quasi totalità di loro (98%) affronta con l’oncologo gli effetti collaterali ritenuti rilevanti. Il 54% dei malati intervistati ritiene che il medico di famiglia non sia un interlocutore adeguato sulle neoplasie. Il 79% riferisce che non esiste dialogo fra oncologi e medici di medicina generale (MMG). Il 72% dei medici di medicina generale, e il 93% di loro afferma, infatti, di non avere a disposizione un canale diretto che faciliti il dialogo con lo specialista oncologo. Ad esempio l’esistenza di un numero verde dedicato (presidente Claudio Cricelli SIMG Società Italiana di Medicina Generale insalutenews.it 28 febbraio 2018). Dopo la diagnosi, i pazienti o i familiari si recano dal medico di famiglia per informarlo della nuova condizione di malattia ma il 66% dei MMG ritiene scarso il proprio livello di conoscenza delle terapie innovative. Per cui i malati non possono sentirsi accuditi.

Il ruolo del farmacista di fiducia

Una piccolissima parte dei malati (9%), infine, si rivolge al farmacista di fiducia per farsi consigliare su come affrontare i disturbi secondari o piccoli disturbi legati alla propria malattia. Tra l’altro sempre stando ai dati di questa ricerca, il 59% dei farmacisti dichiara di non sentirsi completamente formato. E’ per loro difficile  consigliare al paziente il giusto percorso per risolvere i piccoli disturbi.  E  soprattutto  i farmaci oncologici non passano attraverso la farmacia. L’attenzione delle persone colpite dal cancro sugli aspetti secondari della malattia è notevolmente aumentata. Come evidenziato dall’82% dei medici di famiglia e dall’89% degli oncologi in quanto i pazienti. Questo  sono diventati più consapevoli e capaci di interloquire, grazie al recupero di notevoli informazioni da fonti esterne ai medici. Inoltre  rivolgono sempre più spesso domande su problemi apparentemente semplici quali la dieta da seguire, l’attività fisica che possono praticare e il senso di disagio psicologico con cui sono spesso costretti a convivere.

Breve caso clinico

Una giovane paziente, avvocato e, soprattutto, una sportiva professionale, mi racconta il suo personale modo di affrontare il dolore fisico secondario alla sua malattia cronica. Mi racconta che stressando allo stremo il fisico con l’allenamento ha pensato di combattere il dolore con il dolore. Durante il colloquio psicologico analizziamo fino in fondo le implicazioni psicofisiche possibili di questo suo comportamento. Delle sue credenze fino a che lei stessa ritiene che sia giunto il momento di parlarne con il suo medico di riferimento. Questi  la consiglia vivamente di non esercitare più tale pratica. La paziente durante la terapia psicologica ha potuto modificare le sue credenze dando un significato al dolore più realistico trovando conferma nella terapia medica.

Sviluppo cronologico  psiconcologia

Diamo di seguito un breve sunto della cronologia delle fasi di sviluppo della psicooncologia :
  • Anni ’50 (Usa): prime associazioni di pazienti laringectomizzati, colonstomizzati e di donne operate al seno.
  • Fine anni ’50 (Usa): costituzione del primo servizio di psiconcologia presso il Memorial Sloan Dettering Center di N.Y.
  • Anni ’70 (Eu): crescente interesse per gli aspetti psicologici della sofferenza e prime ricerche sul ruolo dei fattori psicologici e comportamentali nella prevenzione delle patologie oncologiche.
  • Anni ’80 (It): primo Servizio autonomo di Psicologia presso l’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova.
  • 1993: strutturazione di attività regolari di assistenza psicologica in 40 centri ospedalieri italiani.

La rete psiconcologica

  • 1984 (Usa): costituzione della International Psichooncology Society (IPOS).
  • 1985 (It): fondazione della Società Italiana di Psiconcologia (SIPO).
  • 1986 (Eu): Costituzione della European Society of Psychosocial Oncology (ESPO).

Diffusione del sapere scientifico

  • 1992, fondazione della rivista scientifica Psycho-Oncology, organo ufficiale delle società IPOS e BPOS.
  • 1983, fondazione della rivista scientifica Journal of Psychosocial Oncology.
  • 1999, in Italia viene fondato il Giornale Italiano di Psico-Oncologia organo ufficiale della Società Italiana di Psico-Oncologia, strumento scientifico rivolto agli operatori del settore.

I miei primi passi di psico-oncologa

La mia prima esperienza professionale come psiconcologa inizia nel 1985 presso l’ospedale San Camillo di Roma (vedi il post studio empirico sul malato oncologico ). Leggi “Ricerca empirica sul malato oncologico. Servizio di Psicologia, Reparto Lancisi, Ospedale San Camillo, Roma” F. De Michele et. Altri, La Settimana degli Ospedali, Organo ufficiale dell’ESMO (Ente Settimana Medica degli Ospedali Roma) 1988: XXX, n2,pagg, 97-112. (“La ricerca si propone di verificare l’esistenza di bisogni umani in un campione di 52 pazienti oncologici ospedalizzati. A tale scopo vengono analizzati anche gli atteggiamenti e le opinioni del personale (24 operatori ospedalieri tra medici infermieri ed ausiliari) che vi lavora a contatto. L’analisi dei dati raccolti consente di rilevare come i pazienti esprimono il bisogno di stabilire rapporti umani soprattutto con i medici. E come questi ultimi tendano a mediare tali rapporti attraverso la quasi esclusiva considerazione per la malattia fisica.

Psicologa volontaria nel reparto di oncologia

Chiamata a seguito di una mia richiesta come psicologa volontaria fui contattata perché il sacerdote, un certo Don Camillo. Voleva fare qualcosa in un  reparto di oncologia romano per placare le angoscianti paure di morte di tutti i pazienti che arrivavano in quel reparto. La diagnosi di cancro si scriveva con un K + e la parola cancro o tumore non si nominava assolutamente tale era la paura che suscitava. Inutile dire che il ruolo dello psicologo era un perfetto sconosciuto. Mi sentii buttata nella fossa dei leoni ad “osservare” così mi disse Don Camillo. “Osserva e fatti venire qualche idea su cosa fare”!

Come difficile è integrarsi con il personale

Ed io iniziai così superando anche il grandissimo disagio relazionale con i medici, gli infermieri e tutto il personale che mi chiedevano cosa io facessi non sapendo dare risposte precise. All’inizio seguivo i medici durante le visite e mi ricordo come se fosse ora cosa  volevano insegnarmi. A fare punture, prendere la pressione e anche a tirare l’acqua dai polmoni non capendo le mie resistenze e i miei rifiuti. In questo modo ci scambiavamo informazioni su cosa fosse la psicologia e cosa potesse fare all’interno del reparto. Ho dunque iniziato proprio a “lavorare” con il personale, diventando la loro “confidente” e in questo ruolo ho cominciato ad aiutarli a riflettere e a confrontarsi tra loro su alcuni problemi organizzativi tipici del reparto (mettersi d’accordo sui turni o sulla gestione dei pazienti). C’era un alta litigiosità tra tutte le figure sanitarie intra professionale (medico-medico, infermiere-infermiere) ed extra-professionale (medico-infermiere). Successivamente ho trovato il coraggio di andare in visita dei pazienti da sola.

Esperienza straordinaria

E’ stata un’esperienza straordinaria, piena di storie, di narrazioni, di costruzioni di amicizie. Amicizie  che danno vita a piccoli gruppi di discussione, di sostegno e accompagnamento alla morte. Perché si moriva molto frequentemente. In questo reparto si restava a lungo ricoverati e si ripetevano frequenti ricoveri. L’esigenza di mettere su uno studio è stata quasi immediata e così è partita una ricerca sul campo portata avanti con il contributo di altri psicologi volontari che nel frattempo sono arrivati.

Esperienza nell’Ospedale Civile di Avezzano

L’esperienza maturata nell’ospedale romano, a partire dal 1989, l’ho riportata nel reparto di Oncologia dell’Ospedale Civile di Avezzano. Questa volta rispondendo ad un appello fatto tramite quotidiani locali dall’allora primario del reparto dott. Francesco Recchia. Operando sempre come psicologa volontaria. All’epoca il reparto comprendeva 15 posti all’interno del reparto di Medicina Mista. In questo caso le difficoltà maggiori riscontrate nel ruolo di psicologa sono state dovute alla scarsa cultura psicologica presente nella realtà marsicana e in quella ospedaliera per farsi conoscere ed accettare all’interno del reparto. Il primo approccio con i pazienti è avvenuto tramite il Primario Medico. In quella occasione i pazienti hanno avuto modo di conoscere un “dottore” diverso dal medico. Un dottore si distingueva da quest’ultimo per il suo interesse rivolto ai sentimenti, alle emozioni e alla sua storia personale narrata nel momento cruciale della sua malattia.

La ricerca del paziente da parte dello psicologo

C’ è stato un momento di assessment durante il quale si è passati da una iniziale ricerca attiva da parte dello psicologo verso il paziente. Qui  l’attenzione si poneva verso un tipo di paziente particolare. Un paziente  difficile da trattare, piangente, che rifiutava la terapia, che ha appena ricevuto la diagnosi o che è entrato da poco nel reparto oncologico, in sostanza il paziente in crisi.

La ricerca dello psicologo da parte del paziente

Alla richiesta attiva dello psicologo da parte del paziente. Il paziente in quest’azione di richiesta viene mosso per lo più da una motivazione intrinseca, svelata successivamente nel rapporto con il terapeuta. Questi  lo aiuta ad affrontare le problematiche inerenti la malattia, a contenere e ad elaborare l’ansia, rinforzando con la propria presenza l’identità della persona malata.

Esperienza in un reparto oncologico del centro-sud

La descrizione del lavoro svolto è stata pubblicata dal Periodico trimestrale della Clinica Psichiatrica, Università di Catania, anno XVI, N.3, LUG/SET. 1996 con il titolo “L’intervento psicoterapico in psichiatria”, Dipartimento di Psichiatria e di Igiene Mentale della U.L.S.S. di Avezzano; De Michele et altri, Atti del XXXIX Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria, Riccione 23-28 ottobre 1994, Formazione Psichiatrica (vedi il post esperienza psicoterapeutica in un reparto oncologico de centro-sud).

Far crollare la mistificazione di un fato inevitabile

Considerate le difficoltà pratiche, culturali e burocratiche, nelle conclusioni si evidenziava l’urgenza di realizzare un progetto psicoterapeutico all’interno del reparto oncologico. Senza predilezione di indirizzi psicologici particolari, al fine di non lasciare il reparto abbandonato ai problemi dei pazienti. Ma anche  dei rapporti con i loro parenti e del personale che vi lavorava. Si auspicava dove non fosse stato  possibile fare psicoterapia psicoanalitica breve con i malati, di realizzare comunque gruppi self-help per i malati ed anche per i familiari. Ciò  come complemento ideale e propedeutico alla psicoterapia. Si auspicava , inoltre, come azione prioritaria di formare il personale ospedaliero attraverso gruppi Balint, per fare in modo che il contesto ospedaliero fungesse da supporto al progetto terapeutico. E si concludeva: Poiché “le nostre idee sul cancro sono soprattutto un veicolo delle gravi insufficienze di questa cultura, di un atteggiamento superficiale della morte, delle nostre ansie emotive, delle sconsiderate risposte al vero problema di crescita” l’importante è riuscire a far crollare la mistificazione legata alla fantasia di un fato inevitabile.

Hospice di Pescina

Dopo un lunghissimo periodo in cui la mia attività si è dispiegata in molteplici campi, sono tornata alla base e dal 2013 lavoro come psicologa presso l’Hospice di Pescina. Di fatto l’esperienza oncologica è stata sempre con me, insegnandomi a capire le persone, in tutti i loro contesti, in ogni momento della vita perché ho imparato che non si tratta solo della loro vita ma della mia. L’hospice come tutti sappiamo è il luogo dove si effettuano le cure palliative, quelle cure che sono fatte non al fine di raggiungere la guarigione, ma al fine di mantenere alta la qualità della vita delle persone che hanno una diagnosi fatale e cioè che sono mirate alleviamento del dolore e l’accettazione del fine vita.

Il malato terminale

“Si definisce fase terminale la condizione di una persona affetta non solo da malattia neoplastica in fase avanzata o progressiva ma anche quella di una persona affetta da patologia cronico-degenerativa e quindi con prognosi infausta a breve e medio termine per la presenza di alterazioni irreversibili” ( Il malato terminale nelle rete di cure palliative: dall’ospedale al domicilio-Linee guida regionali- Regione Abruzzo) intendendo per cure pallative: “l’insieme degli interventi, terapeutici ed assistenziali rivolti sia alla persona malata che al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e globale dei pazienti la cui malattia di base caratterizzata da una inarrestabile evoluzione a da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici” (art.n2, Legge n.38 del 15/03/2010) Questo tipo di strutture di per se rappresentano l’elevato livello delle conoscenze relative alla malattia oncologica e di tutte le malattie croniche, che hanno indirizzato, dopo aver superato il concetto di terapia basato su un modello prettamente fisiologico della malattia; terapia che oggi si può chiamare “cura” della persona in senso largo e profondo del termine.

Il servizio psicologico nell’Hospice

Nell’hospice il servizio psicologico non è un optional ma è diventato un obbligo di legge. Infatti ” il coinvolgimento psicologico, la prostrazione e la depressione grave si instaurano in questi pazienti per la gravità delle condizioni cliniche.  Ma anche per la consapevolezza della morte imminente e delle sofferenze che la accompagnano. Ed ancora per le preoccupazioni di natura familiare sociale ed economica”. E’ questo  uno dei fattori clinici principali che rendono necessaria l’assistenza sanitaria del paziente con patologia prevalentemente neoplastica. Vedi  (Il malato terminale nelle rete di cure palliative: dall’ospedale al domicilio-Linee guida regionali-Regione Abruzzo).

Le difficoltà riscontrate come psicologa

Tuttavia, anche in questo caso nello svolgere il ruolo di psicologa ho riscontrato notevoli difficoltà dovute alla scarsa cultura psicologica presente nell’ambiente. Soprattutto quello medico che non riesce a far fronte alle molteplici istanze emotive provenienti dalla malattia terminale, dal malato terminale e dalla famiglia terminale. Il ruolo medico legato alla cura che guarisce in questo contesto fallisce. E ciò nonostante la richiesta sia altissima perché le persone, per lo più, non riescono a rinunciare facilmente alla propria vita anche se fatta di gravissime sofferenze. E poi ci sono i familiari, che seppur più consapevoli dei malati richiedono la massima attenzione attraverso le terapie effettuate. Essi sono attenti ai minimi cambiamenti fisiologici del loro caro, alle trasformazioni del corpo, alle loro funzioni vitali di base.  Fanno richieste, a volte, anche assurde, ad esempio una fisioterapia o una visita specialistica oculistica ad un paziente che è arrivato alla sua fine.

Contenere le conflittualità

Anche in questo caso la conflittualità intra ed extra professionale del personale sanitario è alta. A ciò si aggiungono le trame familiari che richiedono di essere dipanate e si intrecciano con la cura fatta in un luogo che non è una corsia ospedaliera, ma che spinge continuamente per diventarlo. In un luogo così aperto c’è bisogno di contenimento per tutti: pazienti, familiari e operatori.

Farsi conoscere ed accettare nell’Hospice

Farsi conoscere ed accettare all’interno dell’hospice non è stato semplice. Il confronto con tutti i soggetti che formano la squadra di tutti gli operatori sanitari è stato e resta continuo. Attualmente sono un riferimento e vengo cercata dal personale anche per i problemi familiari. I pazienti e i loro familiari vanno continuamente incoraggiati. Anche con loro sono io che cerco il contatto diretto appena arrivano all’Hospice. Poi loro, la maggior parte, ringraziano in continuazione e dimostrano gioia quando vado a trovarli.

L’ evento di psico-oncologia organizzato a Pescina

In quest’ambito ho lavorato molto per cercare di creare cultura, cercando di rivalutare il concetto di cura. Superare l’idea che l’Hospice sia un luogo dove si va a morire. Seguendo questa direzione è stato organizzato ad aprile 2018 l’evento ”L’integrazione dei servizi sanitari. Il ruolo della psicologia verso una salute di comunità”. L’evento con l’ausilio del Comune di Pescina si è tenuto presso il Centro Studi Ignazio Silone in due giornate. La prima dedicata al Consultorio Familiare e la seconda all’Hospice, ed ha visto una grande affluenza di persone.

Relazionarsi con il consultorio familiare

Per la prima volta l’Hospice si apriva alla comunità territoriale che lo ospita e si relazionava con un altro grande servizio territoriale, il Consultorio familiare. Lavorare a questo evento ha creato, tra l’altro, un maggior coinvolgimento ed affiatamento tra gli operatori. Ossia medici, infermieri e operatori socio sanitari hanno avuto modo di raccontare la loro esperienza insieme a sindaci, assessori comunali, medici di medicina generale, oncologi, psicologi e massimi dirigenti della asl 1 Abruzzo. Tra questi ultimi il Direttore generale, Direttore Sanitario, Direttore del distretto di base. In questo momento si sta lavorando ad un altro evento, che ha come oggetto il “Clima interno e Supporto al personale” partendo da un indagine sui servizi sanitari ad alta intensità di stress presenti sul territorio. Ma anche in questo caso ci sono delle difficoltà questa volta derivanti dalla struttura organizzativa della Asl, che supereremo senz’altro.

Come è cambiato lo scenario della psico-oncologia negli ultimi anni

Nel corso degli anni ho visto cambiare la realtà della malattia oncologica che si è espressa non solo attraverso i bisogni diretti dei singoli pazienti ma anche indirettamente tramite le istanze degli operatori coinvolti nella loro cura. L’intervento psicologico costruito nel tempo dalle buone prassi ha però mantenuto delle costanti. Esse sono  la produzione di conoscenze per capire (attraverso la formazione ), la creazione di strumenti per agire (attraverso l’assistenza ai pazienti e ai familiari), l’aiuto ad organizzare (attraverso il supporto all’organizzazione). I principi comuni rilevati si possono identificare nella situazione traumatizzante della malattia. Ad esempio dal disagio psicologico che provoca, nella presa in carico che si estende alla persona e al suo contesto. Con ciò non limitandosi alla malattia, nel raggiungimento dell’obiettivo generale che è l’integrazione degli aspetti emozionali e biomedici della cura. Al fine di ricostruire o ristrutturare l’identità della persona malata il cui problema principale è la frantumazione del se attraverso il decadimento corporeo.

Conclusioni

E’ fondamentale provare a migliorare il livello di consapevolezza di tutti gli attori coinvolti e la sfida della psicologia è quella di creare un progetto, che permettano di definire i “Percorsi Terapeutici Diagnostico Assistenziali”. Ma anche  i piani di cura in una logica di “salute globale” ponendo attenzione ai bisogni bio-psico-sociali ( vedasi “Il ruolo dello psicologo nel piano nazionale delle cronicità” del CNOP). Ciò al fine di  riuscire a tradursi operativamente nella creazione di servizi reali al cittadino.

Valorizzare gli psicologi isolati

Sarebbe molto importante valorizzare le esperienze sul campo degli psicologi che lavorano isolatamente senza essere inseriti in un contesto psicologico scientifico. E’ assurdo per esempio che nelle asl abruzzesi la psicologia sia affidata al buon senso dei singoli operatori e non sono inseriti in un programma strutturato tipico delle Unità Operative con tutto ciò che ne consegue. È infatti, evidente che in ambito oncologico in particolare le aree di sviluppo e di intervento per il futuro si collegano ai progressi e/o ai cambiamenti sul piano degli interventi. Le modifiche delle tecniche di intervento terapeutico (chirurgico, chemioterapico, radioterapaico) hanno aperto recentemente e apriranno nel futuro nuovi settori per la disciplina psiconcologia.

Istituzione degli Hospice

Un esempio a conseguenza di ciò di cui ho già parlato sono l’ istituzione in Italia degli Hospice e delle unità di medicina palliativa intraospedaliera e territoriale. Un altro esempio di apertura verso nuovi settori di intervento, formazione e ricerca psiconcologica è rappresentato dall’attivazione di diversi centri di counseling genetico relativamente al rischio di malattia di cancro.

Cosa altro c’è da fare

Ma molto c’è da fare nel versante epidemiologico e preventivo, attraverso contatti con le istituzioni, ad esempio la scuola, l’igiene pubblica, e le aziende informative.  Ad esempio mass-media, devono tenere conto nella discussione dei temi oncologici, dell’area psico-oncologica non se ne può più fare a meno. In particolare per la medicina generale. Tutti sappiamo cosa significhi recarsi in visita dal MMG su 1.500 assistiti, segue in media fra 50 e 100 pazienti oncologici come fa ad ascoltarli, come l’AIOM pretende, a seguirli nelle particolari esigenze che troppo spesso non sono proprio considerate una volta che la persona è ritenuta guarita o scampata sarebbe il termine giusto dalla malattia? Da tanto tempo è in progetto lo Psicologo di base ed io penso che questa sia l’ora per realizzarlo. Se hai trovato interessante questo articolo, puoi leggere anche: Caratteristiche di un centro di psicologia oncologica. Chiamami con Whatsapp
ospedale oncologico

Esperienza in un Reparto Oncologico ospedaliero del centro-sud per malati terminali

Dipartimento di Psichiatria e di Igiene Mentale della U.L. S.S. di Avezzano

DE MICHELE F., GALLESE A., ORAZI F., MORONI N.

ESPERIENZA PSICOTERAPEUTICA ALL’INTERNO DI UN REPARTO ONCOLOGICO DI UN OSPEDALE DEL CENTRO-SUD D’ITALIA

 PREMESSA

Come il granchio, crostaceo invisibile, perchè vive sotto la sabbia con la quale si mimetizza; imprevedibile, perchè esce fuori aggressivamente disturbato da fattori esterni; insaziabile, perchè si nutre voracemente e rapidamente; insinuante, perché  avanza invadendo lo spazio che lo circonda; persecutore, perchè non di tregua alla sua vittima fino alla fine; cosi è vissuta la malattia cancro: aggressiva, insinuante, insaziabile, inattaccabile. Seguendo questa metafora, è opportuno sottolineare la condizione psicopatologica del paziente oncologico.

La risposta emozionale all’avvenimento cancro, il suo terrore per la morte e per la follia, fa sentire al paziente che la continuità della sua esistenzasubisca uno stroncamento, uno stravolgimento nell’ambito del suo gruppo familiare e di lavoro, avvertendo di non essere più se stesso.

Un vissuto d’estraneità comincia ad insinuarsi dentro di lui, accanto al panico dell’ignoto, accanto alla certezza che la vita gli sfugge.

Aiutare il malato di cancro a “morire con dignità” è oggi il compito più importante che lo psicoterapeuta deve affrontare nei reparti di oncologia, dato che nella maggior parte dei casi ii cancro è una malattia non ancora curabile. “In una diagnosi di cancro la parte fantasmatica – e quindi la fantasia di morte- è molto rilevante. E ciò sia che si tratti di una fantasia verbalizzata, sia che si tratti di una fantasia inconscia (che si esprime soltanto attraverso la depressione). E’ questa fantasia che rende “terminate” un malato di cancro fin dall’inizio della diagnosi. a prescindere dalla stessa possibilità di guarigione.” (Rolando)

DESCRIZIONE DELL’ESPERIENZA

Dalle suddette considerazioni è nata l’esigenza di operare all’interno di un reparto di oncologia.

Le osservazioni che seguiranno derivano dall’esperienza della dott.ssa Florian De Michele, che ha lavorato per alcuni anni nella Divisione di Oncologia dell’Ospedale Civile di Avezzano, in collaborazione con il dott. Angelo Gallese (responsabile DPIM U.L.S.S. 2 di Avezzano) coadiuvato dalle psicologhe tirocinanti dott.ssa Floriana Orazi e dott.ssa Nicoletta Moroni. Il lavoro è stato svolto a partire dalla fine del 1989. La Divisione di Oncologia comprende 15 posti letto all’interno del reparto di Medicina Mista. Le patologie riguardano, per ordine di incidenza.mammella, colon, polmone, laringe, stomaco, melanoma, rene, vescica, prostata, a sede primitiva sconosciuta. Nell’anno 1993 le degenze sono state 742 e 1.120 pazienti sono stati seguiti in regime di day hospital. Di questi pazienti, e stato coinvolto nell’esperienza solo un numero limitato, a causa della scarsa cultura psicologica presente nella realtà marsicana e nella realtà ospedaliera. Notevoli, infatti, sono state le difficolta che si sono dovute affrontare per farsi conoscere e accettare all’interno del reparto. Il primo approccio con i pazienti è avvenuto durante la visita medica: in quell’occasione il paziente ha avuto l’opportunità di conoscere una figura diversa, di un dottore che non è un medico, e che si distingue da quest’ultimo per il suo interesse rivolto ai sentimenti e alle emozioni che accompagnano la sua malattia. Prima di poterstabilire un rapporto psicoterapeutico vero e proprio, a stato necessario un periodo di assessment durante il quale:

  1. c’è stata una ricerca attiva da parte dello psicologo verso il paziente, l’attenzione veniva posta su diversi tipi di pazienti: il paziente difficile, che piange, che rifiuta la terapia, che ha appena ricevuto la diagnosi o che da pocoentrato nel reparto oncologico: in definitiva il paziente in crisi.
  2. è stato il medico ad inviare il paziente dallo psicologo.
  3. finalmente il paziente ha cercato attivamente lo psicologo, mosso da una motivazione intrinseca. A questo punto si profila il ruolo del terapeuta in quanta persona che entra in rapporto con un’altra persona (il paziente), e lo aiuta ad affrontare le problematiche inerenti la malattia, a contenere ed elaborare l’ansia, rinforzando, con la propria presenza, la sua identità.

PROSPETTIVE PSICOTERAPEUTICHE

Il setting classico della psicoterapia richiede il realizzarsi di alcune condizioni:

1- la richiesta di aiuto psicologico deve provenire dal soggetto stesso;

2- il soggetto deve essere cosciente del proprio stato di disagio;

3- il soggetto deve possedere le capacita. introspettive;

4- il soggetto deve possedere qualche conoscenza delle tecniche e delle terapie psicologiche;

5- il soggetto deve ritenere che queste gli possono essere di giovamento.

Solo a questo punto lo psicoterapeuta può valutare la possibilità propria e del paziente, ed accettare di prendersene carico. Nell’ospedale in genere, e nel reparto di oncologia in particolare, questi presupposti si presentano raramente. Infatti, in questo caso, ci si trova di fronte a due tipi di  problematiche, delle quali bisogna tener conto:

  1. il paziente è un ospedalizzato;
  2. il paziente è un malato di cancro.

Il primo tipo di intervento, perciò , deve essere volto ad affrontare il disagio e la sofferenza provocati dello status di’ paziente: perdita del proprio ruolo sociale, regressione verso comportamenti di tipo infantile, dipendenza degli altri, ecc.; non è quindi un intervento clinico in senso stretto, ma dovrebbe basarsi soprattutto su un lavoro di formazione degli operatori sanitari, del tipo gruppi Balint, e dei familiari attraverso gruppi self-help. Il secondo tipo di intervento si focalizza  sulle forme di sofferenza psichica che derivano dal versante psichico dellapatologia organica. Il cancro rappresenta, a questo punto, una situazione di crisi, di emergenza, carica di rischi, ma non psicopatologica di per se: la malattia non si trasforma necessariamente in un serio disturbo psichico, se viene adeguatamente contenuta ed elaborata.

La terapia clinica è terapia di supporto quando e l’occasione per il contenimento e l’elaborazione della crisi; ed e cura quando attiva il potenziale e le risorse di difesa psicologica dell’individuo contro la malattia.

L’intervento psicoterapeutico si configura prevalentemente come un intervento sulla crisi. Questo è concepito per persone “in via di scompenso psichico le quali hanno affrontato una situazione particolarmente stressante, che non sono riuscite a superare, e che è ritenuta direttamente responsabile dello stato di squilibrio avvertito.” (Grasso).

La psicoterapia auspicabile nel reparto oncologico è quella ad orientamento psicoanalitico. Fare psicoterapia significa comprendere le motivazioni attivate dalla relazione terapeutica.

“Mentre nella psicoanalisi classica si intende promuovere la comprensione, e l’accento è posto sulla storia passata, in questi trattamenti si intende attivare la speranza e l’accento posto sul futuro del paziente.” (Frighi).

Condividiamo l’ipotesi di Frighi secondo cui in questi casi i temi fondamentali di una psicoterapia psicoanalitica, sono:

  1. il motivo della richiesta d’aiuto.
  2. la dipendenza dal nucleo familiare.
  3. il rapporto con il tempo.

Queste caratteristiche vanno considerate in maniera particolare, e adattate nel caso della psicoterapia con i malati di cancro, che cosi diventa una psicoterapia psicoanalitica breve, allo scopo di migliorare lo stile di comportamento dell’individuo. In particolare, nell’attuare questo tipo di psicoterapia con i pazienti neoplastici bisogna agire subito ma, nello stesso tempo, evitare di restare intrappolati dalla fretta.

Il modello di relazione è quello duale, tale modello è caratterizzato da comunicazioni inconsce preverbali che si manifestano in un forte clima emozionale d’alleanza terapeutica. Lo scopo a quello di dare opportunità almalato di elaborare, di dare un significato individuale, personale, a ciò che gli sta succedendo.

Questi pazienti hanno bisogno di spazio e di attenzione particolare perchè la loro difficolta a separarsi è grande.

La continuità della relazione è  fondamentale per i pazienti the intraprendono un rapporto psicoterapeutico e deve essere un punto nodale imprescindibile fino a quando il paziente lo desidera: “la relazione interpersonale soggettiva è la relazione di qualità alla quale si dovrebbe tendere in oncologia, perchè essa offre una certa liberta in rapporto al problema generale del cancro, e permette di evitare l’angosciante ambiguità. Essa infatti permette di riconoscere un certo numero di convinzioni o di frustrazioni o di ammettere le sensazioni di onnipotenza di fronte alla realtà della malattia, senza per questo interrompere la presa in carico o dare l’impressione che non c’è più niente da fare. Il paziente si rende conto che it trattamento si svolge a livello pin esistenziale, sente di essere stimato e compreso nei suoi sentimenti e nella sua storia personale, indipendentemente calla storia della malattia che appartiene alla sua cartella clinica”. (Guex).

Il paziente scivola lentamente e implacabilmente nel nulla, costituito della depressione della morte, dal desiderio di lasciarsi andare senza dover più lottare, in un mondo di perdenti che sanno che il cancro li ha sconfitti.

In lui viene meno il diritto alla speranza di vivere, si sente sospeso tra la condanna e la morte, ed il suo Io si sbriciola lentamente, nell’impossibilita di tendere ad un fine, ad un divenire.

A questo punto centrale il ruolo del terapeuta, che rappresenta il centro tra la vita e la morte e che pub significare con la sua presenza la relazione: essa si fonda sulla tenuta mentale del terapeuta e sulla consapevolezza che egli ha dei propri limiti L’abbandono dell’onnipotenza da parte del terapeuta fa si che il malato lo viva come essere umano con il quale è possibile parlare. Quando l’ascolto della morte è centrale nell’appoggio psicoterapeutico, quando la morte è la parola della storia, non c’è relazione di qualità che tenga se non tiene il terapeuta.

D’altro canto, l’esigenza primaria del paziente è il contatto con il terapeuta,l’essere ascoltato dall’Altro, perchè l’Altro rappresenta la vita e diventa parte del suo stesso mondo interno. Il terapeuta deve tener conto di questo mondo sotterraneo e sforzarsi di capire cosa avviene all’interno del suo paziente e di se stesso.

La presenza dell’Altro funziona non solo come sostegno dell’Io, ma serve a confermare la Vita, nonostante la disconferma della Morte.

CONCLUSIONI

L’esperienza effettuata ha evidenziato l’urgenza di realizzare un progetto psicoterapeutico all’interno del reparto oncologico, al di la degli indirizzi terapeutici che il singolo professionista pub prediligere. Considerando, infatti, le difficoltà pratiche, culturali e burocratiche ad attuare tale progetto, sarebbe auspicabile anche il solo fatto di non lasciare il reparto abbandonato ai problemi dei pazienti, del rapporto con i loro parenti e del personale che vi lavora. Ove non sia possibile fare psicoterapia psicoanalitica breve con i malati, si possono comunque realizzare gruppi self-help per i pazienti e per i loro familiari, nella certezza che questi gruppi non sostituiscano la terapia, ma ne costituiscano un complemento ideale.

E’ necessario, inoltre, formare il personale ospedaliero attraverso gruppi Balint, per fare in modo che il contesto ospedaliero funga da supporto al progetto terapeutico.

Poichè “le nostre idee sul cancro sono soprattutto un veicolo delle gravi insufficienze di questa cultura, di un atteggiamento superficiale verso la morte, delle nostre ansie emotive, delle sconsiderate risposte al vero problema di crescita”, l’importante e riuscire a far crollare la mistificazione legata alla fantasia di un fato inevitabile.

BIBLIOGRAFIA

BERTOLA A., CORI P. (1989), Il malato cronico. Lo sconosciuto della porta accanto, La Nuova Italia Scientifica

BIONDI M., GRASSI L. (1984), da Medicina psicosomatica n° 3 CARBONE P., FRIGHI L. (1990), Contributo della psicoanalisi alla comprensione del paziente oncologico in Progressi in Psichiatria (oc 4è14è7)

DE CORO A., GRASSO M., LOMBARDO G.P., STAMM P. (1989), Disagio Prevenzione Salute. 11 contributo della psicologia clinics. Prospettive di intervento per la capitale degli anni ’90, Bulzoni Editore

DE MICHELE F., CASERTA E., CALONICO F., BRUNT P., GORIO R. (1988), Ricerca empirica sul malato oncologico da “La Settimana degli Ospedali”, Organo Ufficiale dell’ESMO Ente Settimana Medics degli Ospedali, Roma

FREYBERGER H. (1983), Psicoterapia nelle malattie che minacciano la vita, Patton Editore

GALLESE A., MARTINELLI R. (1987), L’atteggiamento di fronte alla morte del malato affetto da tumore maligno: considerazioni psicologiche e psicodinamiche. Estratto da “Concilium Sanitas”, Rivista Scientifica di Attualini medics, n° 11-12 Nov-Dic.

GRASSO M., CARDELLA B. (1989), Psicoterapie dinamiche brevi, La Nuova Italia Scientifica.

MEERWEIM F. (1985), Psicologia e Oncologia, Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia, Bollati Boringhieri.

PANCHERI P., REDA G.C. (1989) Progressi in Psichiatria                 Parte Prima

Psichiatria e Medicina, CIC Edizioni internazionali.

PINKUS L: (1978), Teoria della psicoterapia analitica breve, Bork. ROLANDO R.T. (1988), Psiconcologia, Nuove tendenze nell’assistenza al malato di cancro, Ed. il Mulino.

ROMANO C. (1989), II sostegno psicologico: la relazione terapeutica, da Rivista Italians di Psicologia Oncologica, Anno I rivista trimestrale.

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ricerca empirica oncologia

Ricerca empirica sul malato oncologico

ospedali
ospedali
  1. De Michele, E. Caserta, F. Calonico, P. Bruni1, R. Gorio

Servizio di Psicologia;1Reparto Lancisi, Ospedale S. Camillo, Roma

INTRODUZIONE

In una qualsiasi situazione di ospedalizzazione il malato vive una esperienza depersonalizzante: sottratto alla sua sfera privata, lo si interpella in modo elementare come si parla ad un soggetto non intel­ligente, quasi che la sua malattia appartenesse più all’ospedale che a lui stesso. Ciò è particolarmente vero per il paziente oncologico, che esce da una complessa realtà esterna ed entra in una dimensione nella quale si immobilizza in attesa di evvenimenti. Tale situazione suscita una attivazione emozionale negativa che può influire sulla reattività e sulla resistenza dell’organismo alla malattia (1-8).

Il personale sanitario, d’altra parte, può esperire sentimenti di fallimento personale, di perdita di fiducia in se stesso, di rabbia di fronte all’elevata possibilità di esiti sfavorevoli.

Da queste premesse si è ipotizzato che:

  • il paziente oncologico ospedalizzato manifesti bisogni prima di tutto umani e che l’esigenza di stabilire rapporti sociali positivi sia rivolta, soprattutto, verso i medici e gli infermieri, poiché è soltanto a loro che riconosce la competenza della cura;
  • il personale metta in atto comportamenti di quasi estraneità derivanti da uno stato di frustrazione professionale che può provocare sensi di colpa e depressione.

In sintesi gli obiettivi della ricerca sono:

  • Verificare l’esistenza di bisogni umani dei pazienti neopla­stici ospedalizzati analizzando:
  • consapevolezza del tipo di malattia;
  • punto di vista dei pazienti sull’atteggiamento del personale riguardo alla persona del malato;
  • emozioni che il paziente può provare in qualsiasi momento della giornata ospedaliera.
  • Rilevare l’atteggiamento del personale nei confronti della sua esperienza professionale e delle relazioni sociali nelle quali è coinvolto, attraverso l’analisi delle: a) opinioni che il personale ha sulle varie « figure »; b) opinioni che il personale ha sul rapporto che stabilisce con i ricoverati; c) emozioni che la situazione lavorativa provoca, in qualsiasi momento della giornata, nel personale ospedaliero.

MATERIALI E METODI

L’indagine è stata condotta nel Reparto di Radiologia Medica del­l’Ospedale San Camillo in Roma. Sono stati utilizzati due questionari elaborati dalla Dr.ssa Floriana De Michele dopo un periodo di osser­vazione nel Reparto. Il primo questionario comprende 50 items, di cui 45 prevedono risposte chiuse e 5 risposte aperte, ed è stato sommi­nistrato individualmente dagli psicologi. Precedentemente è stato effet­tuato il pre-testing al fine di controllarne l’adattabilità..

Sono stati intervistati 52 pazienti scelti tenendo conto dell’età (dai 18 anni in poi), del numero dei giorni di degenza (dai 5 gg in poi, perché avessero il tempo di ambientarsi, e 5 gg prima della dimis­sione, perché ciò sembrava renderli euforici tanto da rispondere solo positivamente agli items) e della disponibilità a collaborare.

Il secondo questionario comprende 57 items, di cui 54 prevedono risposte chiuse e 3 risposte aperte, ed è stato dato a 28 sanitari con la libertà di riempirlo nel tempo libero, manifestando la completa disponibilità per qualsiasi problema che potesse sorgere durante la fase di compilazione. Di essi hanno collaborato 4 medici, la caposala, 15 infermieri (professionali e non), 4 ausiliari. Con diverse motivazioni hanno rifiutato: 1 medico, 2 infermieri, 1 ausiliario.

L’elaborazione computerizzata dei dati è stata effettuata dal Ser­vizio di Fisica Sanitaria dell’Ospedale. E’ stata calcolata, quindi, la percentuale delle risposte ottenute nei vari items dai soggetti divisi in categorie corrispondenti alle seguenti variabili indipendenti: sesso, età (19/48, 49/68, 69…), numero dei ricoverati 2/-2) per i pazienti; sesso, età (30/40, 41/51, 51/60), professione (medici, infermieri, ausi­liari), anzianità di servizio (-1- 10/a-10/a) per il personale. Il test usato per la verifica dei dati è stato il Chi quadrato (x2) con il livello di significatività (p) prescelto minore o uguale a 0,05.

ANALISI DEI  DATI

  1.  Pazienti

Un primo dato che emerge è che i pazienti non sembrano avere coscienza della natura della loro malattia.

Alla domanda: « Perché si trova in ospedale questa volta? », sol­tanto 5 soggetti su 52 hanno usato la parola « tumore » o « carcinoma » per spiegare i motivi del ricovero. Spesso le risposte sono concentrate sul dolore avvertito oppure sull’operazione chirurgica subita. In tal modo è più facile credere a una forma meno grave di malattia, così che non possa pregiudicare la possibilità di guarigione e la ripresa delle attività svolte precedentemente. Ed è forse per questo che, pur mostrandosi timorosi per un eventuale trattamento doloroso, ciò che più preoccupa i pazienti è la lontananza dalla famiglia e dal lavoro, nonostante pensino che questa non duri a lungo.

  • Ha certezze riguardo alla sua malattia e alla sua guarigione?
  f 0/0
Si 32 61,54
No 19 36,54
NR 1 1,92
Tot. 52 100

 

  • Crede di poter riprendere di nuovo tutte le sue attività?
  f 0/0
Si 35 67,31
No 16 30,77
NR 1 1,92
Tot. 52 100

 

  • E’ preoccupato per la sua assenza dal lavoro e dalla famiglia?
  f 0/0
Si 45 86,54
No 6 11,54
NR 1 1,92
Tot. 52 100

Un secondo dato che si riferisce al rapporto stabilito tra il per­sonale ed i pazienti. I ricoverati sentono di essere trattati bene sia dai medici che dagli infermieri. Entrambi le figure professionali, tut­tavia, tendono a non parlare della malattia col paziente, nonostante quest’ultimo manifesti tale desiderio. In tal modo la visita medica è vissuta con imbarazzo: parlare del malato al suo cospetto e non per­mettergli di capire significa, infatti, oggettivizzarlo.

Per quanto concerne il comportamento assunto specificatamente dai medici, i dati dimostrano generalmente che i malati vorrebbero saperne di più sulle cure, sui farmaci, sulle analisi cliniche ma spesso non vengono informati se non su specifica richiesta. I parenti, al con­trario, trovano i medici disponibili ad informarli sullo stato di salute del familiare ricoverato.

I malati, inoltre, vorrebbero parlare con i medici dei propri pro­blemi personali, ma credono di non essere ascoltati volentieri. E’ com­prensibile, perciò, che i pazienti vogliano nell’ospedale delle persone disposte ad ascoltare i loro problemi.

— Nel reparto sono tutti gentili con me.

  f 0/0
Vero 48 92,31
Falso 4 7,69
NR 0 0
Tot. 52 100
  • Gli infermieri spesso assumono un atteggiamento amichevole con i malati.
  f 0/0
Vero 47 90,38
Falso 5 9,62
NR 0 0
Tot. 52 100
  • Vorrei sapere di più sulle cure, sui farmaci, sulle analisi, il risul­tato di queste, ma i medici non mi informano mai.
  f 0/0
Vero 38 65,38
Falso 18 34,61
NR 0 0
Tot. 52 100

 

  • Durante la visita medica mi sento in imbarazzo perché i medici ed infermieri parlano tra loro senza farmi capire niente.
  f 0/0
Vero 28 53,85
Falso 24 46,15
NR 0 0
Tot. 52 100
  • Quando i miei familiari vorrebbero informarsi sul mio stato di salute quasi mai trovano i medici disponibili.
  f 0/0
Vero 16 30,77
Falso 34 65,38
NR 2 3,85
Tot. 52 100

 

  • In presenza dei medici spesso parlo dei miei problemi personali e loro mi ascoltano volentieri.
  f 0/0
Vero 23 44,23
Falso 27 51,92
NR 2 3,85
Tot. 52 100
  • Nell’ospedale ci vorrebbero delle persone disposte ad ascoltare e a discutere i problemi dei pazienti.
  f 0/0
Vero 44 84,62
Falso 8 15,38
NR 0 0
Tot. 52 100
  • Chiedendo ai pazienti con chi volessero parlare sono state ottenute le risposte elencate nella Tabella I, dalla quale si nota che:

Tabella I.

      Fasce         d’eta

19/48aa      49/68aa

69…aa      I Num.

2 / +2

ricoveri

—2

      F % F % F % F % F–%
Medico 20 38,46 7 53,85 7 25,93 6 50 9 37,5 11 39,29
Psicologo 4 7,69 2 15,38 2 7,41 0 0 3 12,5 1 3,57
Caposala 0 0 0 0 » 0 0 0 0 0 0 0
Infermiere 2 3,84 0 0 2 7,41 0 0 0 0 2 7,14
Cappellano 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0
Tutti 17 32,69 2 15,38 10 37,04 5 41,67 5 20,83 12 42,86
Nessuno 3 5,76 1 7,69 1 3,7 1 8,33 3 12,5 0 0
NR 6 11,54 1 7,69 5 18,52 0 0 4 16,67 2 7,14
Totali 52   13   27   12   24   38  

= 10,85, p < 0,05; x2= 9,50, p < 0,05.

  1. la categoria dei medici risulta essere l’interlocutrice prefe­renziale;
  2. con l’aumentare dell’età aumenta il numero dei soggetti che vogliono parlare con « tutti »;
  3. con il diminuire dell’età aumenta il numero dei soggetti che vuole parlare con lo psicologo;
  4. con l’aumentare del numero dei ricoveri cresce il bisogno di parlare con una « figura specifica »: il medico, principalmente, o lo psicologo e diminuisce il bisogno di parlare con « tutti ».

Voler parlare con il medico dei propri problemi personali vuol dire poter avere occasione di parlare della malattia fisica, sulla quale,, evidentemente, si vuole sapere di più e si cerca rassicurazione.

Il voler parlare con « tutti » è l’espressione di poter parlare con qualcuno in generale, qualcuno non ben identificato; pochi, infatti, esprimono l’esigenza di parlare con lo psicologo. Questo sia perché è sempre mancato uno specifico referente per poter parlare dei propri problemi quale è, appunto, lo psicologo, sia perché questa figura pro­fessionale, essendo poco presente negli ospedali, è rimasta sconosciuta. In realtà la maggior parte degli intervistati non conosce la figura dello psicologo, anche perché sono soprattutto anziani: su 52 intervistati 39 sono compresi nelle fascie di età 49-68 anni e 68 anni in poi.

I giovani sono gli unici ad aver risposto di voler parlare specifi­catamente con lo psicologo oltre che con il medico. Anche la nostra esperienza nel Reparto ha confermato l’esistenza tra’ i pazienti di un forte bisogno di verbalizzare le proprie preoccupazioni, bisogno che è stato possibile soddisfare per il periodo di tempo in cui noi siamo stati presenti.

Un terzo dato che emerge è la manca nza, in generale, di indicazioni che possano far supporre momenti di depressione vissuti dai pazienti nel corso della giornata ospedaliera, ad eccezione del dato derivante dalla domanda in cui si chiedeva al paziente se si sentisse meglio di sera piuttosto che il mattino:

f                            %

No 39  75
Un po’ 4     7,69
Abbastanza 5     9,62
Molto 4     7,69

La sera nel Reparto c’è più calma e il soggetto ha il tempo per pensare ai suoi problemi, per questo sta peggio rispetto al mattino, quando è distratto da molte cose.

Da un’analisi delle differenze fra i vari gruppi di età emerge, tut­tavia, che i soggetti appartenenti alla fascia di età 49/68 hanno mani­festato segni di depressione rispondendo con più frequenza « abbastan­za » e « molto » alle seguenti domande:

      a) Mi sembra che le decisioni che ho preso in passato siano quasi tutte sbagliate.

Età No % Un pò % abbastanza % Molto %
19-48 7 53,8% 6 46,1% 0   0 13
49-68 19 70,4% 4 14,8% 3 11,1% 1 27
69.. 4 33,3% 7 52,3% 51 8,3% 0 12

X= 10,13, P < 0,05.

b) vorrei dormire sempre.

Età No % Un pò % abbastanza % Molto %
19-48 10 76,9% 3 23,1% 0   0  
49-68 16 59,2% 2 7,4% 3 11,1% 6 22,2%
69.. 7 58,3% 3 2,5% 2 16,6% 0  

X= 10,32 P < 0,05.

  • c) dormo male
Età No % Un pò % abbastanza % Molto %
19-48 1 7,7% 7 53,8% 4 30,7% 4 30,7%
49-68 12 44,4% 3 11,1% 5 18,5% 5 18,5%
69.. 2 16,6% 4 33,3% 5 41,7% 5 41,7%

X= 11,51, P < 0,025.

  • d) Non me la sento di prendermi cura della mia persona.
Età No % Un pò % abbastanza % Molto %
19-48 9 69,2% 1 7,7% 1   0 13
49-68 15 55,6% 6 22,2% 0 07,7% 0 27
69.. 12 100% 0   0   0 12

<

BPersonale

Il personale intervistato presenta un’anzianità media di servizio di 15/16 anni nell’Ospedale e di 8 anni nel Reparto in quanto solo il 20,8% di esso vi ha lavorato sempre.

I dati relativi alla prima serie di domande riguardano le opinioni sulla qualità dei rapporti stabiliti tra colleghi e tra il restante perso­nale. Si osserva, così, che i medici dichiarano di non avere buoni rap­porti tra loro, mentre gli infermieri e gli ausiliari rispondono di aver stabilito rapporti positivi con i colleghi. Conseguentemente i medici pensano che tra loro ci sia rivalità e competizione e non solidarietà e rispetto reciproco.

—  Ritiene di aver stabilito rapporti positivi con i propri colleghi?

  Si % No % NR %
Medici 1 25 3 15 0 0
Infermieri 13 76,5 3 17,6 1 5,9
Ausiliari 3 100 0 0 0 0

—  I medici sono uniti da elevata solidarietà e rispetto reciproco.

  Vero % Falso % NR %
Medici 0 0 4 100 0 0
Infermieri 5 29,4 10 58,8 2 11,8
Medici 0 0 4 100 0 0

—  Non esiste rivalità o competizione tra medici che lavorano in uno stesso Ospedale.

  Vero % Falso % NR %
Medici 0 0 4 100 0 0
Infermieri 2 11,8 14 82,3 1 5,9
Ausiliari 0 0 3 100 0 0
  • Il personale paramedico è unito da elevata solidarietà e rispetto
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 2 50 0 0
Infermieri 4 23,5 11 64,7 2 11,8
Ausiliari            

I rapporti stabiliti col restante personale sono ritenuti positivi sia dai medici che dai paramedici. Il personale ritiene che il reparto funzioni bene perché c’è collaborazione, nonostante gli infermieri pen­sino che a volte tra loro e i medici manchi il rispetto delle recipro­che esigenze.

  • Ritiene di aver stabilito rapporti positivi col restante personale che lavora nello stesso reparto?
  Si % No % NR %
Medici 4 100 0 0 0 0
Infermieri 14 82,3 1 5,9 2 11,8
Ausiliari 3 100 0 0 0 0
  • Il reparto funziona bene perché c’è collaborazione tra personale medico e paramedico.

Vero       %         Falso         %       NR        %

Medici 3 75 1 25 0 0
Infermieri 11 64,7 5 29,4 1 5,9
Ausiliari 3 100 0 0 0 0
  • Il personale paramedico dovrebbe rispettare di più le esigenze dei medici.
  Si % No % NR %
Medici 1 25 3 75 0 0
Infermieri 10 58,8 1 6 35,3 1
Ausiliari 1 33,3 1 33,3 1 33,3
  •   I medici spesso non considerano le esigenze dei paramedici.
  Si % No % NR %
Medici 1 25 3 75 0 0
Infermieri 12 70,6 3 17,6 2 11,8
Ausiliari 3 100 0 0 0 0

I dati che seguono riguardano le opinioni sulla importanza e il prestigio dei diversi ruoli professionali. Si é visto, così, che i medici ritengono il loro ruolo il più importante nel reparto, di godere unnotevole prestigio presso i pazienti e di perderlo tra i paramedici; secondo loro diventare medici oggi non conferisce un grosso prestigio sociale. Gli infermieri ritengono, invece, che: il ruolo più importante nel reparto é svolto dai paramedici, nonostante i medici abbiano un notevole prestigio sia presso i malati che presso il personale paramedico e nella società in generale; il loro ruolo, però, é divenuto più importante che nel passato. Gli ausiliari, infine, ritengono il ruolo paramedico il più importante nel reparto, di avere prestigio presso i malati e credono, invece, che il medico lo stia perdendo sia presso loro che nella società.

  • Nel reparto, il ruolo più importante lo assolve il medico.
  Vero % Falso % NR %
Medici 3 75 1 25 0 0
Infermieri 5 29,4 10 58,8 2 11,8
Ausiliari 2 66,7 1 33,3 0 0
  • Per il paziente il medico ha sempre un notevole prestigio.
  Vero % Falso % NR %
Medici 4 100 0 0 0 0
Infermieri 14 82,2 2 11,8 1 6
Ausiliairi 3 100 0 0 0 0
  •  Il prestigio del medico diminuisce presso il personale paramedico.
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 1 25 1 25
Infermieri 3 17,6 12 70,6 2 11,8
Ausiliari 2 66,7 1 33,3 0 0
  • Diventare medici, oggi, vuol dire acquisire un grosso prestigio
  Vero % Falso % NR %
Medici 1 25 2 50 1 25
Infermieri 12 70,6 4 23,5 1 5,9
Ausiliari 1 33,3 2 66,7 0 0
  • Il ruolo del personale paramedico é quello più importante nel reparto.
  Vero % Falso % NR %
Medici 1 25 3 75 0 0
Infermieri 11 64,7 4 23,5 2 11,8
Ausiliari 2 66,7 1 33,3 0 0
  • Il ruolo dei paramedici ospedalieri, attualmente, é considerato più importante che nel passato.
  Vero % Falso % NR %
Medici 3 75 1 25 0 0
Infermieri 10 58,8 6 35,2 1 6
Ausiliari 1 33,3 2 66,7 0 0
  •  I paramedici hanno un notevole prestigio presso i malati.
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 2 50 0 0
Infermieri 9 52,9 6 35,2 2 11,9
Ausiliari 3 100        

Gli ausiliari e gli infermieri, infine, ritengono che lavorare in ospedale sia spesso frustrante, d’altra parte risulta essere gratificante perchè contribuisce alla conoscenza di gravi malattie. Secondo loro i più gratificati sono i medici, in quanto il lavoro nell’ospedale dà loro la possibilità di affermarsi professionalmente. I medici, invece, sembrano avere idee meno positive riguardo alle gratificazioni che possono derivare loro dal lavoro in ospedale, soprattutto, rispetto alla possibilitàdi carriera.

  •  Lavorare in ospedale costituisce una realtà complessa tanto da risultare, spesso, frustrante.
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 2 50 0 0
Infermieri 12 70,6 4 23,5 1 6,9
Ausiliari 3 100 0 0 0 0
  •  Lavorare in ospedale é gratificante perchè dà la possibilità di contribuire alla conoscenza di gravi malattie.
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 2 50 0 0
Infermieri 12 76,4 2 11,8 2 11,8
Ausiliari 2 66,7 1 33,3 0 0
  • Per un medico é importante lavorare in ospedale perchè ha la possibilità di affermarsi professionalmente.
  Vero % Falso % NR %
Medici 1 25 3 75 0 0
Infermieri 14 82,3 0 0 3 17,7
Ausiliari 3 100 0 0 0 0

Il personale medico ed infermieristico pur ritenendo importante un rapporto con il paziente basato sulla gentilezza e disponibilità formale sembra che non riesca ad instaurarlo fino in fondo, attraverso la partecipazione ed il calore umano, e che sia sempre pronto a ritirarsi dietro la convinzione che l’unica esigenza e l’unico diritto del malato riguardino la guarigione fisica. A questo proposito va notato che circa la metà degli intervistati sostiene che lamentandosi del trattamento e delle cure i pazienti dimostrano ingratitudine per ciò che si fa per loro.

Quindi, se da un lato il ricevere una prestazione professionale efficiente viene considerato un diritto del malato, dall’altro tale efficienza é vista come un qualcosa di ” elargito ” di cui bisogna essere grati. Ciò può essere comprensibile se si tiene conto della difficoltà oggettiva del prendersi cura di molti malati, ognuno dei quali ha la propria personalità ed i propri bisogni specifici.

  •   Il comportamento del personale ospedaliero deve essere corretto con i pazienti.

Vero       %       Falso     %         NR       %

23      95,83         0          4         1         4,17

  • Sono sempre pronto a rispondere alle domande che pongono i pazienti.

Vero       %       Falso     %         NR       %

19     79,17        3       12,5              2         8,33

  • Il cattivo comportamento del personale ospedaliero dipende sempre dalle esigenze esagerate dei pazienti.

Vero      %       Falso     %         NR       %

2         8,33      21       87,5           1       4,17

  • Lo stato emotivo del personale ospedaliero non influisce sul comportamento assunto con i pazienti.

Vero       %       Falso     %         NR       %

12         50         9         37,5           2       12,5

  • L’unica esigenza del ricoverato é la guarigione fisica.

Vero       %       Falso     %         NR       %

16     66,67         7       29,17       1       4,17

  •  Il ricoverato ha il solo diritto di ricevere una assistenza medica.

Vero       %       Falso      %       NR        %

13      54,17      10        41,67         1       4,17

  • Lamentandosi del trattamento e delle cure i pazienti dimostrano ingratitudine per ciò che si fa per loro.

Vero       %       Falso     %         NR       %

11          45,83      12        50          1       4,17

Una tendenza d’opinione diversa é stata mostrata dagli ausiliari, che sembrano convinti non solo della necessità per il paziente di un rapporto che vada al di là della semplice prestazione medica, ma anche del diritto dei malati di esigerla senza per questo sentirsi ingrati.

  • L’unica esigenza del ricoverato é a guarigione fisica.
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 2 50 0 0
Infermieri 13 76,5 3 17,6 1 5,9
Ausiliari 1 33,3 2 66,7 0 0
  • Il ricoverato ha il solo diritto di ricevere una assistenza medica.
  Vero % Falso % NR %
Medici 3 75 1 25 0 0
Infermieri 10 58,8 6 35,2 1 5,9
Ausiliari 0 0 3 100 0 0
  • Lamentandosi del trattamento e delle cure i pazienti dimostrano ingratitudine per ciò che si fa per loro.
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 1 50 0 0
Infermieri 8 47,1 8 47,1 1 5,9
Ausiliari 0 0 2 66,7 1 33,3

La situazione lavorativa provoca dei sentimenti che, di volta in volta, possono influire sul comportamento. Generalmente, il personale intervistato ha espresso di sentirsi a proprio agio, abbastanza sicuro e soddisfatto. Tra i diversi gruppi considerati, però, si sono rilevate delle differenze. In particolare, i medici hanno espresso di sentirsi meno calmi e gli infermieri più ” afflitti da qualcosa ” rispetto agli altri gruppi professionali. Gli operatori con minore anzianità di servizio hanno espresso di sentirsi più sicuri del ” fatto loro ” e meno tesi.

I giovani hanno espresso di sentirsi più calmi. Un discorso a parte va fatto per i lavoratori appartenenti alla fascia d’età più elevata: essi si distinguono dagli altri per sentirsi più soddisfatti e più a loro agio, ma contemporaneamente aumentano in loro le preoccupazioni vaghe e le inquietezze e diminuisce il loro senso di sicurezza. Una simile contraddizione non é facile da spiegare: probabilmente a determinare questo tipo di risposte hanno concorso più fattori (problematiche legate all’età più avanzata che possono acuirsi lavorando a contatto con pazienti così particolari).

  • Mi sento calmo.
  Vero % Falso % NR %
Medici 2 50 1 50 0 0
Infermieri 8 47,1 8 47,1 1 5,9
Ausiliari 0 0 0 0 0 0

x2= 11,20, p < 0,025.

  • Sono afflitto da qualcosa.
  No % Un po’ % Abbast. % Molto % NR %
Medici 1 25 1 25 1 25 1 25 0 0
Infermieri 11 64,7 0 0 1 5,9 2 11,8 3 17,6
Ausiliari 1 33,3 1 33,3 1 33,3 0 0 0 0
  • Mi sento sicuro del fatto mio.
Anni di servizio No. %. Un pò % abbastanza %. Molto % NR %
Meno di 10a.. 2 25% 0 0% 2 25% 2 25% 2 25%
Più di 10a.. 0 0% 1 6,2% 12 75% 3 18,7% 0 0%

= 10,89, p < 0,05.

  • Mi sento teso.
Anni di servizio No. %. Un pò % abbastanza %. Molto % NR %
Meno di 10a.. 1 12,5% 1 12,5% 2 25% 0 0 2 12,5%
Più di 10a.. 7 43,8% 6 37,5% 0 0% 0 12,5% 1 6,2%

X2= 9,83, p < 0,05.

  • Mi sento teso.
Età No % Un pò % abbastanza % Molto % NR %
30-40a. 0 0 0 0 5 83,4% 1 16,6% 0 0%
41-51a. 0 0% 5 38,5% 5 38,5% 2 15,4% 1 7,7%
51-60a. 1 20% 0 0 3 60 1 20 0 0

x2 = 10,49 p < 0,05

  •  Mi sento soddisfatto.
Età No % Un pò % abbastanza % Molto % NR %
30-40a. 0 0 0 0 5 83,4 0 0 1 16,6
41-51a. 1 7,7% 1 7,7% 9 69,2% 0 0% 2 15,4%
51-60a. 0 0% 0 0 3/span> 60 2 40 0 0

x2 = 9,81, p < 0,05

  • Mi sento a mio agio.
Età No % Un pò % abbastanza % Molto % NR %
30-40a. 0 0 0 0 5 83,4 0 0 1 16,6
41-51a. 1 7,7% 1 7,7% 9 69,2% 0 0% 2 15,4%
51-60a. 0 0% 0 0 3/span> 60 2 40 0 0

x2 = 10,31 p < 0,05

  • Ho paura delle cose brutte che mi possono succedere.
Età No % Un pò % abbastanza % Molto % NR %
30-40a. 2 33,4 2 033,4 1 16,6% 0 0 1 16,6
41-51a. 7 53,8% 2 715,4% 0 0% 2 15,4% 2 15,4%
51-60a. 1 20% 0 0 1 20 3 60% 0 0

x2 = 11,28, p < 0,025

  • Mi sento inquieto.
Età No % Un pò % abbastanza % Molto % NR %
30-40a. 3 50 2 33,4 0 0 0 0 1 16,6
41-51a. 3 23,1% 8 61,5% 0 0% 0 0% 2 15,4%
51-60a. 80 0% 0 1 20 0 0 0 0 0

x2 = 10,95, p < 0,05

  • Mi sento sicuro.
Età No % Un pò % abbastanza % Molto % NR %
30-40a. 0 0 0 0 6 100 0 30,6 0 0
41-51a. 0 0% 1 7,7% 7 53,8% 4 30,8% 1 7,7%
51-60a. 1 20% 0 0 4 80 0 0 0 0

x2 = 10,19, p < 0,05

Conclusioni

Al fine di rendere l’ospedalizzazione dei malati oncologici più “umana”, l’intento principale di questa ricerca é quello di individuare le loro particolari esigenze. Per questo motivo era molto importante conoscere il punto di vista degli operatori sanitari che lavorano con essi. I dati derivanti dai soggetti intervistati hanno evidenziato dei fattori degni di considerazione.

I pazienti hanno affermato di portare in Ospedale non solo la preoccupazione per la propria malattia, ma anche quella per tutto ciò che sono costretti a lasciare fuori: la famiglia, la casa, il lavoro e problemi personali in genere. Pressante, infatti, é risultato essere il bisogno di parlare dei propri problemi, di trovare all’interno dell’Ospedale delle persone disposte a discuterne e ad ascoltarli. Essi hanno espresso l’esigenza di voler parlare soprattutto con il medico e dal medico vorrebbero essere più informati sulle cure, sui farmaci, le analisi cliniche. E’ per questo che la visita medica viene percepita come ” passivizzante “: la maggior parte dei malati ha dichiarato di viverla con imbarazzo a causa dell’atteggiamento assunto dai medici e dagli infermieri. Tuttavia, in generale, dichiarano che in Reparto tutti sono gentili con loro. I soggetti che più risentono di questa situazione sono quelli compresi tra i 49 e i 68 anni, e, pertanto, mostrano più segni di vissuti depressivi nel corso della giornata ospedaliera.

I pazienti esprimono prima di tutto il bisogno di “rapporto” soprattutto con il medico.

I medici e gli infermieri ritengono che l’unico diritto del ricoverato sia quello di ricevere un’assistenza medica adeguata e che l’unica esigenza dela malato sia la guarigione fisica. Con ciò essi dimostrano di considerare la ” persona ” del paziente come la sua “malattia”, per essa mostrano molta considerazione e i medici sono sempre disposti a parlarne con i parenti: i pazienti ritengono infatti che i loro parenti trovino i medici sempre disponibili ad informarli sul loro stato di salute.

Il medico, d’altro canto, curando la malattia del paziente e parlandone ai parenti, può esprimere un disagio personale, derivatogli dalla non elaborazione e accettazione della propria morte. Il non parlare della malattia al malato di tumore, vuol dire evitare che il malato possa intuire la gravità del proprio stato di salute e, quindi la possibilità di discutere l’inevitabilità dell’esito infausto.

L’analisi degli stati emotivi provocati dalla situazione lavorativa, non a caso, ha rilevato che proprio i medici esprimono di non sentirsi calmi ma afflitti da qualcosa a differenza del restante personale che lavora nel reparto. La categoria medica é risultata, comunque, la più conflittuale. Essi, infatti, pur ritenendo di svolgere il ruolo più importante nel Reparto e di avere un notevole prestigio presso i malati, dichiarano di ritenere frustrante il lavoro in Ospedale e di non avere stabilito buoni rapporti con i colleghi.

E’ vero che i pazienti sentono il bisogno di stabilire rapporti più umani con i medici; é anche vero, però, che questi ultimi sono portatori di maggiori problemi rispetto al restante personale. Considerare, quindi, da parte loro il paziente principalmente attraverso la sua malattia può rappresentare il modo con cui i medici sono più capaci di esteriorizzare il rispetto che hanno per il malato; ma sta anche a significare che essi tentano di conservare almeno la gratificazione che in genere deriva dall’avere ben lavorato.

Riassunto: Ricerca empirica sul malato oncologico.

La ricerca si propone di verificare l’esistenza di bisogni umani in un campione di 52 pazienti oncologici ospedalizzati. A tale scopo vengono analizzati anche gli atteggiamenti e le opinioni del personale (24 operatori ospedalieri tra medici, infermieri ed ausiliari) che vi lavora a contatto. Ai pazienti ed al personale viene somministrato un questionario. L’analisi dei dati raccolti consente di rilevare come i pazienti esprimano il bisogno di stabilire rapporti umani soprattutto con i medici e come questi ultimi tendano a mediare tali rapporti attraverso la quasi esclusiva considerazione per la malattia fisica.

Summary: Empirical Investigations in Oncological Patients.

The purpose of this research was to ascertain the existence of human needs in a series of 52 hospitalized oncological patients. The attitudes and opinions of the 24 members of staff doctors, nurses and attendants working in contact with them were analyzed. Staff and patients were given a questionnaire to answer. Analysis of the data collected demonstrated not only the patients’ need to establish human relations particularly with doctors but also how medicalstaff tend to mediate these relations through an almost exclusive consideration of the physical illness.

PAROLE CHIAVE:

Bisogni umani; Malato oncologico; Ospedalizzazione.

BIBLIOGRAFIA

  1. Biondi M, Grassi L. Psicosomatica del cancro. Med Psicosom 1984: 3; 365-6.
  2. Kubler-Ross E. La Morte e il Morire. Perugia. Cittadella Editrice. 1984.
  3. Maguire GP. The Psychological Effects of Cancers and their Treatments.Tiffany B. London. Allen & Unwin. 1981.
  4. Mc Intosh G. Patients’ awareness and desire for information about undisclosed malignant disease. Lancet 1976: 1435; 350-61.
  5. Meyers ME. The effects of types of communication on patients’ reactions to stress.Nursing Res 1964: (2); 126-31.
  6. Ricci-Bitti PE. Formazione del personale sanitario ed intervento sugli aspetti psicologi dell’organizzazione ospedaliera. In: Psicologia e Ospedale Generale. Cesa-Bianchi M. Ed. Angeli. Milano 1979.
  7. Robin M, Matteo D. A social-psychological analysis of the art of medicine. J Soc Issues 1979: 35 (1); 12.
  8. Wilson-Barnett J. Stress, Malattia, Ospedale. Roma, Il Pensiero Scientifico, 1981.

Se hai trovato interessante questo articolo, puoi leggere anche: Esperienza in un Reparto Oncologico ospedaliero del centro-sud per malati terminali.

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Centro di psicologia oncologica

Di fronte alla possibilità di percorrere un cammino psicologico, la persona affetta da patologia neoplastica può porsi una domanda. “È possibile con degli interventi psicologici migliorare la qualità della mia vita?”. Proprio considerando tali dubbi è importante per il paziente  confrontarsi singolarmente con lo Psicologo lungo un percorso specifico. Ma anche condividere – qualora richiesto – con altre persone il proprio stato emotivo o attività in un luogo dedicato, come un centro di Psicologia Oncologica. Il centro  rende tangibile quell’approccio multidisciplinare e olistico proprio della Psicologia Oncologica. Un approccio concepito per fornire supporto e sostegno individuale psicologico e sociale al paziente oncologico. Otre che supporto psicologico a familiari di malati onocologici.

La Psicologia Oncologica

La Psico-oncologia è un settore della psicologia clinica nato recentemente per occuparsi in modo specifico del disagio psicologico che accompagna la malattia neoplastica e degli interventi psicologici nei malati oncologici.

I pazienti oncologici prima ancora di essere tali, sono persone che vivono il proprio stato di salute e malattia secondo un soggettivo sistema di variabili di tipo biologico, psicologico e sociale.

Ogni paziente affronta la malattia in modo unico e peculiare attivando un processo di adattamento alla nuova condizione fisica e mentale.

Le malattie oncologiche colpiscono il corpo e contemporaneamente anche la personalità del paziente, così come lo stato emotivo di familiari, amici e operatori sanitari.

La Psicologia oncologica lavora ed ha un tipo di approccio al malato oncologico prevalentemente basato sul riconoscimento e sul trattamento della sofferenza psicologica.  Questa è legata alla malattia ed interviene con lo scopo di strutturare un valido supporto psicologico al paziente e a coloro che si prendono cura di lui.

Il ruolo dello psico-oncologo

Il compito dello psico-oncologo si svolge all’interno di svariate fasi. Dalla valutazione psicologica al momento della diagnosi di tumore. Alla fase del processo di cura, fino, qualora necessario, all’adeguata gestione psicofisica del malato in fase avanzata di malattia. Lo  accompagna attraverso eventuali cure palliative.

Di fronte ad una malattia come quella oncologica le prospettive di vita che il paziente ha davanti a sé possono assumere numerosi livelli di importanza e gravità. Questo indipendentemente o meno dallo stadio della malattia.

Ciò che influisce in modo rilevante sullo stato emotivo della persona è il suo modo di decodificare la sua situazione fisica e la sua malattia.

Sentimenti che nascono nel malato

I sentimenti che prevalgono hanno un elevato grado di intensità. Si riferiscono ad alienazione, senso di irrealtà, diniego, incredulità, disorientamento, rabbia, o ancora isolamento e impotenza.

In ogni fase della malattia e in ogni momento intimo del paziente lo psico-oncologo può intervenire con terapie misurate sul paziente. Ciò al fine di  diminuire e riposizionare questi stati emotivi. Insegnando come gestirli. Fornendogli giusti strumenti per acquisire un maggior controllo di sé e maggiore senso di responsabilità e rispondenza ai trattamenti medici.

Obiettivi dello psicooncologo

Ogni trattamento, pur differenziandosi da persona a persona, ha il fine ultimo di ridurre l’ansia, di chiarire le percezioni e informazioni errate che vengono codificate in base al proprio peculiare sistema di decodifica.

In merito a ciò Toscano (2001)(ww2.unime.it/oncologiamedica/Convegni/Congresso (Terapie psicologiche in oncologia di Lucia Toscano, 2001)) sottolinea che le più frequenti espressioni della crisi del paziente oncologico si possano descrivere come segue.

  •  Rifiuto come negazione della propria malattia e ostacolo alla compliance in fase terapeutica.
  • Ansia come paura della solitudine, della morte, della perdita di capacità fisiche e di isolamento socio-affettivo.
  • Depressione come rassegnazione, perdita di motivazioni ed emozioni correlate a un declino psicofisico.

La vita della persona affetta da patologia neoplastica può ruotare attorno alla patologia stessa, aumentando lo stato di ansia.

Contemporaneamente sul paziente hanno una forte influenza anche eventi e situazioni ambientali esterne. Questi  in qualsiasi modo, si imprimono sulla sua persona, andando a intaccare più o meno l’emotività.

Proprio per questo l’assistenza psicologica si pone l’obiettivo di aiutare a gestire i numerosi eventi stressanti per il possibile ruolo che questi possono avere sul decorso della malattia.

Il malessere psicologico quindi, sia che si esprima sotto forma di ansia aperta e di aggressività o in forma depressiva con il rinchiudersi in se stessi, esiste.

La comunicazione della diagnosi

La sola parola “cancro” genera un’instabilità psicologica istantanea. Il primo immaginario che si presenta nella mente della persona che riceve la diagnosi di cancro non può considerarsi positivo, in quanto comporta, a livello simbolico, una minaccia esistenziale. La reazione del paziente, quindi, va considerata come una risposta a uno shock in grado di cambiare la percezione che ha di se stesso, del proprio corpo, delle persone care, del mondo, delle relazioni sociali. Questa è una fase molto delicata poiché, mentre l’accettazione non accenna ancora a definirsi, vince la sensazione di confusione e paura. Tanto nel paziente quanto nei suoi familiari   in alcuni casi, potrebbero ritrovare se stessi impossibilitati a fornire al proprio caro il giusto sostegno.

La reazione del paziente

In questa fase, le domande possono nascere nella mente del paziente sono del tipo seguente. “Perché è successo proprio a me?”, “Cosa mi accadrà adesso?”, “Sarò in grado di affrontare la malattia?”. A tutti questi interrogativi non può esservi una risposta immediata, in quanto la guarigione stessa dalla malattia è lenta. Il modo di gestire la “crisi emotiva” generata dalla diagnosi medica, l’atteggiamento di fronte all’evento spesso traumatico può influenzare il tipo di adattamento psicosociale alla malattia. L’atteggiamento e lo stile di coping utilizzato andranno a loro volta ad influenzare   la qualità di vita successiva alla diagnosi. Ma anche la compliance ai trattamenti medici e il decorso biologico della malattia (Putton et al., 2011).

Il paziente oncologico e la sua malattia

Il coping rappresenta una modalità cognitivo-comportamentale con la quale un individuo affronta un evento stressante e le sue conseguenze emozionali. La capacità di far fronte ad una crisi esistenziale dipende da diversi fattori. Dal tipo di patologia (sintomi e decorso), dal livello di adattamento precedente alle situazioni di malattia, dal significato della minaccia esistenziale. Ma anche da fattori culturali e religiosi, dall’assetto psicologico e dalla personalità, dall’istruzione e da eventuali disturbi psichiatrici presenti (Putton et al., 2011).

Vi sono comportamenti più adattivi e altri meno adattivi nell’affrontare la propria condizione di salute e malattia. Fondamentale e decisiva nel determinare lo stile di coping è la percezione del controllo che si ha sulla malattia e sugli eventi di vita stressanti, avendo una forte influenza sulla salute e sul decorso della malattia. Le persone possono sentire di avere un controllo interno o esterno sugli eventi.

Locus of control interno
  • I soggetti con un locus of control interno sentono di poter esercitare un controllo sugli eventi, credono in se stessi e in ciò che si prefiggono. Nei confronti delle malattie reagiscono in termini risolutivi e in prima persona, sono propositivi e collaborano con l’equipe medica. Sembra essere un fattore protettivo per la salute in generale e elemento positivo per il decorso della malattia.
Locus of control esterno
  • I soggetti con locus of control esterno reagiscono in modo passivo agli eventi, non si sentono responsabili. Né sentono di avere un controllo su quanto gli accade e tendono a dare la colpa agli altri. Questo atteggiamento sembra essere un fattore di rischio per la salute in generale e anche per il decorso delle malattie.

Più gli eventi sono percepiti come indesiderabili e incontrollabili maggiore sarà la probabilità di percepire quell’evento come stressante e maggiori saranno le probabilità di ripercussioni negative sulla salute (Grandi et al., 2011). Di conseguenza, si attivano differenti stili di coping, strategie adattive di reazione alla malattia.

Hopelessness
  • Hopelessness: elevati livelli di ansia e di depressione, incapacità di mettere in atto strategie cognitive finalizzate all’accettazione della diagnosi. Convinzione di un controllo esterno sulla malattia.
Spirito combattivo
  •  Spirito combattivo: moderati livelli di ansia e di depressione. Numerose risposte comportamentali attraverso le quali il paziente cerca di reagire positivamente e costruttivamente alla situazione. Convinzione di un controllo interno sulla malattia.
Accettazione stoica
  • Accettazione stoica: bassi livelli di ansia e depressione, attitudine fatalistica, convinzione di un controllo esterno della malattia.
Negazione e evitamento
  • Negazione e evitamento: assenti sia manifestazioni ansioso-depressive sia strategie cognitive, nella convinzione da parte del paziente di un controllo sia interno che esterno della malattia.

Meccanismo di difesa : negazione della malattia  

Un paziente può negare la diagnosi, la prognosi o la gravità della malattia. Oppure può ignorare o dimenticare quello che il medico gli ha riferito con la diagnosi. Oppure rifiutare di aderire al trattamento proposto.

La negazione è tra le strategie di coping maggiormente utilizzate dai pazienti oncologici nell’affrontare l’impatto emotivo della malattia. Si riscontra in modo rilevante proprio durante la fase diagnostica della malattia risultando associata a bassi livelli di stress emozionale (Watson et al., 1984).

La negazione di malattia è stata definita come un meccanismo di difesa che permette di prendere le distanze da una realtà minacciosa e preoccupante. “Un rifiuto conscio o inconscio di una parte o di tutto il significato di un evento per allontanare la paura, l’ansia o altri affetti spiacevoli” (Hackett et al. 1968).

Secondo Breznitz (1983) la negazione che si attiva in risposta ad uno stimolo minaccioso per la propria salute determina un certo grado di distorsione della realtà e può riguardare diversi aspetti o parti di essa.

Valore positivo della negazione

Inoltre, a seconda della fase di sviluppo della malattia in cui si trova il paziente, la negazione può avere un valore positivo o negativo. Questo fatto avviene in relazione al contributo che può dare al miglioramento o al peggioramento della condizione medica.

Per l’approccio psicologico al malato oncologico negli studi attuali in letteratura emerge come il meccanismo difensivo svolga un ruolo adattivo principalmente nelle fasi iniziali della malattia. Perché protegge il paziente dalla paura, dallo sconforto che si provano di fronte alla diagnosi medica. La negazione, quindi, attraverso una “distorsione” della realtà, nascondendo a se stessi la presenza del cancro è di aiuto.  Serve a ridurre il senso di sopraffazione (Moyer et al., 1998), di disperazione, di paura, di impotenza che si provano al momento della diagnosi medica. Contribuisce a preservare un’immagine positiva di sé e l’autostima (Livneh, 2009).

Valore negativo della negazione

Portare la negazione all’estremo, però, potrebbe indurre il paziente a percepire le cure come non discriminanti per raggiungere di nuovo uno stato di salute. Oppure potrebbe aumentare lo stato di confusione e incertezza. Questa è una delle situazioni in cui lo psico-oncologo interviene, supportando il paziente a ripristinare il proprio sistema di decodifica. Imparando così a gestire i propri stati emotivi amplificati e altalenanti, intaccati dal suo stato di malattia.

Considerare fattori psicologici, culturali, sociali

Durante il decorso della malattia oncologica, il paziente resta una persona “composta” da numerosi fattori di varia natura. Psicologici, biologici, culturali, sociali. Questi fattori interagiscono continuamente e in modo ancora più intenso in una situazione percepita in alcuni casi come invalidante per il proprio benessere, quella della malattia oncologica. Personalità del paziente, esperienze passate, età, relazioni interpersonali presenti e passate, presenza di un contesto sociale e familiare di supporto o meno, gravità e tipo di tumore stesso. Tutte queste variabili se con valenza negativa e connesse in modo errato possono generare stati emotivi quali senso di paura, ansia, depressione, alterazione immagine di sé e del corpo, aggressività, rabbia, ostilità, senso di colpa, di invidia, di ingiustizia e uso massiccio del meccanismo di difesa della negazione e rimozione.

La necessità di un sostegno psicologico del paziente

Per questo motivo è necessario un sostegno psicologico al paziente oncologico. Nonchè ripristinare un ordine che rispetti la complessità del soggetto e i suoi bisogni, che lasci spazio a quella genuina “libertà folle” propria di ognuno di noi. Lo psico-oncologo supporterà il paziente insegnando a:

  • contenere l’ansia e le emozioni negative mantenendo un equilibrio psicologico.
  • mobilitare meccanismi di difesa adeguati.
  • favorire la comunicazione e l’espressione delle emozioni negative.

Ogni persona ha un proprio modo di reagire e affrontare la malattia che deve essere compreso e rispettato lungo tutto il percorso di cura. In quanto l’adattamento alla malattia richiede tempo e risorse personali. L’intervento psicologico nei malati oncologici richiede attenzione.

Interventi di psicooncologia alla famiglia del malato

Ogni persona, inoltre, ha la sua costellazione familiare e amicale sulla quale può contare. Nel caso in cui i familiari abbiano bisogno anch’essi di un supporto, avvertendo una sensazione di smarrimento e incapacità di reazione, lo psico-oncologo può fornire loro sostegno e strumenti necessari, attraverso la funzione di raccordo.

Gli interventi della psico-oncologia indirizzati alla famiglia del malato oncologico hanno come obiettivo quello di aiutare il sistema familiare a sostenere l’intero processo clinico. Si parte dalla diagnosi fino alla guarigione o al lutto e, in quel caso, di favorirne il processo di elaborazione.

Paziente e cure palliative

Da studi effettuati e dalla Letteratura in merito alle malattie oncologiche, emerge una grande carenza nella consapevolezza dei pazienti con cancro relativamente alla propria diagnosi e alla natura maligna della propria malattia.

Pronzato et al. riportano che solo l’11,5% di pazienti sottoposti a trattamento chemioterapico aveva una corretta percezione dell’intento palliativo della terapia, mentre la maggior parte dei pazienti credeva che la chemioterapia fosse preventiva.

Nel caso di prognosi infausta di tumore maligno e di cure palliative, è importante rendere consapevole il paziente, ancor più se costretto al trasferimento in una struttura quale Hospice, in quanto oltre al proprio dolore causato dalla malattia, si presenta un marcato stress psicologico e un turbamento emotivo dovuto all’incertezza e alla discrepanza tra aspettative e realtà.

Le cure palliative negli Hospice

Negli Hospice i pazienti portano con sé la propria storia, i propri complessi, il proprio trascorso, la propria personalità. Il contributo psicologico e sociale nelle cure di fine vita si rivela un ingrediente fondamentale. Lo psico-oncologo in questa sede si fa promotore di una prassi curativa centrata sulla persona del paziente, sui suoi bisogni, sui suoi diritti, in particolare su quello dell’autodeterminazione.

Uno dei principali obiettivi dell’intervento psicologico consiste nella personalizzazione della cura che deve tener conto di significati, storie, valori, volontà dei curati per orientare le scelte del malato esclusivamente e puramente secondo il modo in cui vive il suo morire, trovando la via per riconciliarsi con ciò e con chi sta lasciando.

Paziente oncologico e psicologo

La persona malata di tumore può trovarsi in una condizione di sofferenza o disagio psicologico di varia intensità pur non trovandosi in una fase terminale o palliativa.

Il paziente può decidere spontaneamente di rivolgersi ad uno psicologo, oppure può accadere che siano i medici stessi ad indirizzarlo verso tale trattamento quando il suo comportamento interferisce con il piano terapeutico.

In questi casi lo psico-oncologo può intervenire presso studi privati o centri di psicologia oncologica per iniziare un percorso costruito su peculiari bisogni, esigenze del paziente.

La fase di trattamento può richiedere un intervento di sostegno per le ansie e paure legate all’intervento o alla terapia, per sensazioni di perdita di controllo e per aumento di vulnerabilità. Nella fase post-trattamento i pazienti devono fare i conti con i timori di eventuali ricadute quando i medici non controllano direttamente il decorso e quando non c’è un trattamento in atto.

Effetti del percorso terapeutico-psicologico

Gli obiettivi del percorso terapeutico di psico-oncologia sono tutti orientati al giovamento dello stato psico-emotivo delle persone affette da malattie neoplastiche, e sono:

  • Reimpostare un canale di comunicazione tra il paziente e il suo contesto sociale (famiglia, amici).
  •  Favorire una migliore percezione e riconoscimento della malattia.
  • Riposizionare il locus of control.
  • Ristabilire una sensazione di controllo su alcuni fattori di stress.
  • Sviluppare la capacità di defocalizzarsi dalla malattia per riprendere attività pressoché quotidiane, qualora il grado di malattia lo permetta.
  • Gestione dello stress.

Conclusioni

La Psicologia Oncologica intende promuovere la salute, intesa in modo globale cioè psicofisico, del paziente attraverso un approccio multidisciplinare alla stessa patologia neoplastica. In questa ottica la Dott.ssa Floriana De Michele affronta la delicata tematica della patologia e in generale delle implicazioni psico-sociali dei tumori. I pazienti affetti da cancro vengono seguiti dalla Dottoressa nelle complesse problematiche psicologiche ed emozionali presso differenti strutture in base alle loro esigenze e al tipo di percorso medico che stanno affrontando:

  • il proprio studio privato, sito al numero 1 di via Giuseppe Verdi ad Avezzano (AQ).
  •  l’Hospice “Serafino Rinaldi” di Pescina, una struttura residenziale in cui vengono trattati pazienti con patologie inguaribili.
  • il Consultorio Familiare.
Perché il tumore intacca il sistema emotivo del paziente

Il tumore è una malattia invasiva che intacca non solo il corpo e il suo funzionamento cellulare, ma provoca forti ripercussioni sul sistema emotivo del paziente.

Invade il soggetto affetto dalla malattia così come i suoi familiari e amici da un punto di vista psicologico. Vi sono molte malattie che possono avere una prognosi peggiore, ma il cancro è un argomento che suscita paura non appena viene pronunciata la parola stessa, indipendentemente dal grado di gravità diagnosticato.

In caso tu fossi  affetto da una malattia neoplastica e hai bisogno di un supporto psicologico, se hai l’esigenza di “uscire dalla paura”, non esitare a contattare la Dott.ssa De Michele attraverso l’apposito form nella pagina dei contatti.

Se un tuo parente è malato di tumore e hai bisogno di rafforzare le tue difese per dargli il giusto sostegno, contatta la Dott.ssa Floriana De Michele per un consulto.

Se hai trovato interessante questo articolo, puoi leggere anche: Esperienza in un Reparto Oncologico ospedaliero del centro-sud per malati terminali.

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